sabato 1 marzo 2014

(Esca) News: EscaProgetti. Aperte le libere sottoscrizioni


Compiamo un anno, e lo esca-festeggiamo con voi!
Volontà e progetti di un'identità culturale davvero indipendente


EscaMontage blog e proto web tv compie un anno. Un progetto indipendente, che muove sulle sue gambe spericolate e performa-attive, e che continua ad evolversi. Anche in trasferta estera…

Nato da un duo artistico che ha voluto e saputo fare esperienza di se stesso maturando una coscienza dinamica e multiforme della realtà quotidiana come di quella culturale, nostrana e non solo. Cresciuto come creatura dalle tante volontà e curiosità, oggi EscaMontage è un contenitore totalmente free di informazioni, letteratura, video, reportage, interviste, musica, cinema, teatro etc. Un’auto produzione di format televisivi per il web. Un crocevia virtuale di arte e contatti. Un avamposto critico senza compromessi e sempre aperto alle collaborazioni spontanee come pure al dialogo, pur problematico, etico, epistemologico, con il mondo intorno, dentro, sotto, sopra. Sottosopra e sempre in movimento, EscaMontage pensa “quadrimensionalmente”…ed è diventata anche associazione culturale no profit.

Mentre organizziamo il secondo Bracciano LagoFilmFest e lavoriamo al nostro primo lungometraggio, di cui vi offriamo in anteprima, su questo numero, un ghiotto backstage, tentiamo di creare eventi itineranti, laboratori cine-poetici, momenti di dibattito, presentazioni eclettiche e al contempo un gruppo culturale di amici, appassionati, curiosi, professionisti, talenti…Un gruppo che sia linfa, mente, corpo, volti e voci di EscaMontage.

È con voi, con tutti coloro che sin dall’inizio ci hanno seguite e supportate, e con tutti coloro che si stanno aggiungendo e si aggiungeranno, che vogliamo costruire il nostro futuro, che è già presente. Organizzare reading performativi, workshop e proiezioni interattive, coinvolgere autori, artisti, studenti, personalità di spessore etico e culturale. Avviare contestualmente un’attività editoriale indipendente e davvero alternativa che dia spazi nuovi e necessari all’arte. Una boccata d’aria fresca, lontana dall’inquinamento del mainstream che apre porte e portoni soltanto a chi ha le solite vecchie, arrugginite chiavi.

Non aspettiamo e semplicemente accettiamo che qualcuno ci imponga modi e tempi, visioni e spazi per la “nostra” cultura. Che pseudo autorità dallo scarso background e dalla scalfita etica tumulino quella cultura in una serie di operazioni museali autoreferenziali e mutile. La cultura è il bagaglio di conoscenza, arte, idee, desideri, emozioni che dobbiamo e possiamo costruire e condividere insieme, scegliendo una dimensione mai univoca, in cui il linguaggio comune sia davvero senza barriere, oltre i “poteri”, dentro la vita.

Con voi amici, possiamo. Anche per questo, per sostenere le spese vive della nostra associazione, in cerca di sede più o meno stabile, e per sostenere il nostro impegno volontario nell’ideazione e organizzazione di tutto questo e di molto altro, vi proponiamo una libera sottoscrizione. O meglio una forma di libera donazione che per EscaMontage significherebbe un grande abbraccio collettivo dai suoi sostenitori e la garanzia di poter continuare a camminare e correre, su quelle spericolare gambe, giovani e speriamo sempre più forti.

Sosteneteci, sosteniamoci.

EscaSaluti per il primo “nostro” anno!!!

 

Sarah e Iolanda

(Esca) News: Neobar e Le nuove Esca Attività


EscaMontage, tra eventi e nuova editoria libera

 

EscaMontage si prepara a celebrare il suo primo anno di febbrile attività coinvolgendovi nelle sue nuove proposte.


Notizia freschissima il gemellaggio con l'importante e illustre rivista on-line Neobar. Rivista/laboratorio di letteratura e arte. Avvenuto in queste ore attraverso la video poesia di Iolanda La Carrubba. Una collaborazione che porterà alla collaborazione e alla condivisione di nuovi contenuti e di riflessioni multimediali.
http://neobar.wordpress.com/

Sempre nella sua ottica multi-, accanto al blog e alla web tv, che cercano nuove evoluzioni e partnership, EscaMontage mette radici nel sociale con la sua associazione culturale no profit. Video musicali, video poetici, interviste, editing editoriale, correzione di bozze e di manoscritti, aiuto nella stesura di libri di poesia e di prosa. EscaMontage diventa affiancamento prezioso, mettendo a disposizione le sue competenze, per aiutare giovani e non solo, scrittori, poeti, artisti di ogni tipo ad emergere e dare forma e consistenza alla propria opera.

Fare cultura indipendente e dialogare dentro e fuori da coro comincia lavorando con le persone giuste.

Vi aspettiamo, per saperne di più contattateci alla nostra e-mail escamontage.escamontage@gmail.com

 

Un saluto EscaIndipendete a tutti!!!

(esca) News: Backstage Lavori in corso... il film





Backstage del lungometraggio
...Lavori in corso by EscaMontage
regia di Iolanda La Carrubba
con Fabio Traversa e Tiziana Lucattini
con la partecipazione amichevole di Aureliano Amadei
ringraziamenti a
Lisa Bernardini
Massimo Pacetti
Carlo Mariotti
Sarah Panatta
riprese del backstage di Salvatore Maggiore
montaggio di Iolanda La Carrubba

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EscaMontage vi racconta il suo primo lungometraggio di fiction.

Un progetto artistico indipendente, ideato e diretto da Iolanda la Carrubba (film maker) e scritto con Sarah Panatta (giornalista).

In queste immagini il primo backstage filmato, da una delle giornate di lavorazione. La scena del "Bar".

Il film si propone nelle vesti ironiche di una commedia ispirata all'età d'oro del cinema italiano, quello delle grandi coppie comiche e della scrittura sofisticata ma densa di vita vissuta.

Il protagonista, un autore e attore teatrale, empatico e indocile, ma anche sornione e fantasioso, attraversa la quotidianità, confrontandosi con ipocrisie, contraddizioni e piccole meschinità dell'oggi, con affetti, amicizie e ricordi che si incontrano e scontrano nel suo mondo, fatto di immaginazione, progetti e curiosità nei confronti di ogni aspetto della realtà. Un film che vuole divertire e divertirsi, osservare la realtà ma anche narrare il sottile confine tra questa e il sogno, il desiderio, il cinema stesso. Un'opera tessuta di momenti onirici ispirati a Fellini, oltre lo specchio, nel labirinto di una nuova Alice.

Il film ha ottenuto il patrocinio del MIBAC (Ministero per i Beni e le Arti Culturali) e l'autorizzazione ufficiale della GNAM (Galleria Nazionale d'Arte Moderna) di Roma, per la realizzazione di una delle scene.
si ringrazia Chiara Mutti.

Guest star amichevoli del film, Aureliano Amadei e Alessandro Benvenuti

Il film è un'oper-azione in divenire, innovativa e aperta alle contaminazioni, che prenderà forme e forma diverse. Dal primo montaggio di alcune scene girate è stato realizzato un cortometraggio indipendente seppur legato al progetto, che parteciperà a vari festival nazionali e non solo.




Sul blog EscaMontage e sulla pagina FB tutte le news collegate.

Presto il progetto anche su Produzioni dal basso.

(Esca) Video-intervista: Giorgio Di Genova


(Esca) Rubrica: Cosimo Ruggieri

Salt Peanuts: altri mondi musicalmente possibili





Rubrica di Cosimo Ruggieri










[EscaMontage apre una nuova rubrica, Salt Peanuts, dalla penna del fotografo "musicomane". Cosimo Ruggieri. Montatore per professione, visitatore di quarte dimensioni per vocazione, Cosimo riprende una grande famigerata tradizione letteraria, per divertirsi e farci divertire. Con i suoi pezzi, tra nostalgia e sarcasmo, ci condurrà in altri mondi musicali possibili, a volte reali, a volte inventati. Sta a noi/voi tuffarci nel suo mondo, piccolo paese delle meraviglie. Che la ricerca abbia inizio, con un pizzico di Salt... Sarah Panatta]






"I Mother Goose"




Questa è l’avvincente e rocambolesca storia di un gruppo che è andato vicino a diventare famoso. Vi chiederete che cosa c’è di strano o di particolare, di storie così la musica ne è piena. Ma questa è una storia che va raccontata.


I “Mother Goose 1969” questa è la dicitura per intero del gruppo, ma dopo un breve giro di concerti, il 1969 cadde per strada durante un tour e non fu più ripristinato. I “Mother” nascono in Texas (quello che lo scrittore texano Joe R. Lansdale ha definito “Stato mentale") a Bonham, negli anni Cinquanta.


Il gruppo ribattezzato dalla locale rivista musicale Outta Mind “Gesh family”, era formato da James Gesh al basso, Jordan alla batteria e da Junior, all’anagrafe Jonathan Gesh, alla voce e dal chitarrista e amico di infanzia Richard Sullivan, detto "my two cents " per la facilità nello scommettere che aveva sin dall’infanzia. I nostri eroi crescono in Star Street a Bonham, vivono in case a poca distanza tra loro e passano la loro vita praticamente sempre insieme, prima come banda di ragazzini e poi, con la scusa di fare colpo sulle ragazze, come gruppo musicale. Decidono di formare un gruppo dopo che il padre di Richard, che faceva il commesso viaggiatore, aveva portato a casa il vinile del disco dei “Jethro Tull” intitolato Aqualung, del 1971. Il nome del gruppo prende appunto il nome da una traccia di questo disco, intitolata Mother Goose. Ma non solo per questo. Mary, la mamma dei Gesh, quando erano piccoli leggeva agli scalmanati fratelli i racconti di Mamma Oca, in inglese Mother Goose appunto. Dopo tante prove, vengono accidentalmente scoperti da una radio locale, la KTSW, e dopo aver fatto letteralmente impazzire il Texas con il loro groove, attirano l’interesse di una casa discografica locale, la Shake 'N' Stomp. Finalmente incidono il primo disco, dal titolo Fourty Days And Fourty Nights nell’anno 1974, anno in cui uscivano, tra gli altri, Brian Eno con Here Come The Warm Jets, I Kraftwek con Autobahn, Neil Young con On the Beach, Bob Marley and the Wailers con Natty Dread. Soprattutto uscivano I Led Zeppelin (di cui i Gesh erano grandi consumatori) con Physical Graffiti. E come diceva il Dj della locale stazione radio (mettendo fortemente l’accento sul “tra”): “ tra le altre cose esce il disco dei ‘nostri’ Mother Goose!!! ”.


Tutti avevano il loro disco, anche il negozio di Charles il barbiere, che lo teneva in bella mostra e non perdeva mai occasione di raccontare quando i componenti della band (ormai grandicelli) andavano a tagliarsi i capelli appollaiati sulla sedia a forma di cavallo. Il disco era passato di mano in mano ed era quasi arrivato, niente di meno, in quelle di Ahmet Ertegün, sì, proprio quell’Ertegün che insieme al fratello Nesuhi Ertegün aveva fondato la casa discografica Atlantic. Ma... i Mother litigarono a morte fra loro e distrussero tutta la produzione. Perché litigarono? Non donne e motori, ma solo futili motivi.




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(Esca) Rubrica: Mohamed Malih

Ex-Stra: la rubrica di Mohamed Malih


6. Il gene delle posate





È il pomeriggio di una bella giornata di sole. Sono in cucina. Dalla finestra un vorticoso pulviscolo si dirige verso il lavandino illuminando un cestello di posate. Queste lo accolgono accendendosi di vita propria, come fossero fiori.
Altre rare volte avevo colto questa vita segreta delle posate. Ma questa volta era palese che le posate - le forchette soprattutto - non sono solo quelli oggetti inanimati che pensiamo.

Quando la luce è propizia (evidentemente devono concorrere contemporaneamente anche molti altri fattori, fra cui credo lo stato d'animo del visitatore della cucina, la stagione, la temperatura, il tasso d'umidità, la composizione chimica e la forma delle posate stesse, la qualità del silenzio nella cucina, la presenza o meno di animali domestici nella casa, gli incontri avuti dalla luce lungo la strada che ha dovuto percorre fra gli astri per giungere fin qui sul mio lavandino, e chissà quante altre cose!), quando la luce è propizia le forchette oltre a mostrarsi come cosa viva, possono lasciar trapelare anche un certo surplus di vivacità, una briosa allegria, un incarnato particolarmente splendente.
Lo so che i scettici stanno pensando a questo vivido luccichio delle posate come dovuto semplicemente all'effetto di una lavastoviglie efficiente, opportunamente coadiuvata da ottimo detersivo e brillantante. Spiritosi.

Il fatto è che avete troppa confidenza con le posate, siete talmente abituati ad averci a che fare che nemmeno le notate più. Per me non è così.
Io e le forchette ci frequentiamo da molti anni, ma non da sempre, è solo da quando sono in Italia che ho un rapporto quotidiano con loro. Invece, chissà perché, ho sempre trovato naturalissimo usare il cucchiao per mangiare il cous cous invece delle mani nude. A casa mia, in Marocco, lo sapevano e quindi non c'era nessun problema. Invece quand'eravamo ospiti avevo sempre un attimo d'imbarazzo al momento del cous cous per via del fatto che dovevano portare un cucchiaio appositamente per me.

Credo però che questa particolare senisibilità per le posate non derivi solo dal mio particolare retaggio culturale: deve essere una cosa ereditaria. Penso questo per via di mia figlia, che per quanto sia nata e cresciuta in Italia sono anni che a tavola usa, per tutti i cibi tranne quelli liquidi, due bacchette di legno. Eppure l'unico contatto con l'oriente che abbiamo è quello saltuario che ormai tutti hanno con le rosticcerie cinesi sotto casa.
Ogni giorno gli scienziati scoprono qualche nuovo gene. Sembra ormai chiaro che per ogni nostra attitudine ci sia un relativo gene: c'è quello per l'abilità matematica, quello per l'aggressività, quello per l'orientamento nello spazio, quello per il tradimento ecc. Non è quindi da escludere che ci possa essere anche un gene che fa sì che si usino le mani al posto delle posate, o che si preferiscano le bacchette rispetto al coltello e alla forchetta. In ogni caso, almeno nel caso mio, questo gene deve subire delle mutazioni di generazione in generazione. Chissà con l'ausilio di quale arnese si ciberanno i mei nipoti...

(Esca) Gemellaggio: Il Parere dell'Ingegnere

Da Sanremo al cinema ungherese




EscaMontage festeggia il suo primo anno insieme ai nuovi amici.


Questo mese segnaliamo dalla nostra rivista partner "Il Parere dell'Ingegnere":




- Da Sanremo riparte l'Italia (di Chiara U.)

- Videointervista a Catello Masullo

- Cinema fra i detenuti  (di Armando Lostaglio)

- Muore il regista ungherese Miklos Jancsò, una perdita per il Cinema europeo  (di Armando Lostaglio)

-  Cento anni di Charlot  (di Armando Lostaglio)

- CINEVAGANDO - In viaggio con il cinema nelle regioni del Giappone


E tante altre recensioni

(Esca) Gemellaggio: Nettuno "PhotoFestival" 2014

Nettuno Photo Festival: al via il concorso di fotografia 2014


In attesa di conoscere e farvi conoscere nei prossimi mesi il contenuto della quarta edizione del PhotoFestival "Attraverso le Pieghe del Tempo", organizzato dall'Associazione Culturale Occhio dell'arte, che si svolgera' dal 19 al 31 agosto nella citta' di Nettuno, EscaMontage, media partner dell'evento, vi invita a cliccare sul sito della manifestazione e leggere il regolamento del concorso per fotografia aperto anche quest'anno ai creativi di tutt'Italia.

Sono aperte infatti le selezioni nazionali per scegliere i soli 40 autori della Photogem Exhibition 2014!

Tra le importanti novita' di quest'anno: tutte le opere in esposizione a Nettuno saranno poi  prescelte per essere esposte nel mese di Maggio 2015 presso il noto Festival FOTOARTE a Taranto, mentre le prime tre classificate a Nettuno saranno esposte nel mese di Luglio 2015 durante il Bracciano LAGOFILMFEST 2014, curato da Escamontage Associazione Culturale no-profit - per la direzione artistica di Iolanda La Carrubba e Sarah Panatta (EscaMontage blog & web tv).

  

Catalogo PDF del PhotoFestival "Attraverso le Pieghe del Tempo" 2013 

(Esca) Gemellaggio: Neobar

Siamo lieti di segnalare il gemellaggio tra EscaMontage e Neobar!
Di seguito il link per visualizzare Neobar:

http://neobar.wordpress.com/

(esca) Bando: In giarDino

L’Associazione Culturale “In giarDino”, per la prima volta in collaborazione con il Teatro SalaUno di Roma, presenta la seconda edizione del Concorso Nazionale per Monologhi Teatrali. 

Scopo del concorso è promuovere la scrittura drammaturgica teatrale e dare la possibilità agli autori del testo di vedere rappresentato il loro monologo in uno spazio professionale e affascinante, quale il Teatro SalaUno di Roma. 

L’attore che darà voce al testo avrà la possibilità di confrontarsi con un vero pubblico su uno dei palchi attualmente più ambiti dalla ricerca teatrale. Situato nella navata centrale della cripta della Scala Santa in uno spazio suggestivo con pareti in mattoni a vista ed ampi archi, che richiamano – benché moderne – strutture romane antiche.

Di seguito trovate i link per scaricare il bando e la scheda di partecipazione.
Per ulteriori informazioni non esitate a scriverci a associazioneingiardino@gmail.com

In bocca al lupo a tutti i partecipanti!

MATERIALI:

Bando

Scheda
 

(Esca) recensione: Incontri tra poesia e pittura


Incontri tra Lina Morici e Davide Cortese

di Iolanda La Carrubba

 


Il giorno 10 febbraio 2014 presso la Biblioteca Rispoli nel ciclo di Incontri nella poesia a cura di Roberto Piperno nell’occasione della presentazione del libro Madreperla (edizione Lieto Colle),  del poeta eoliano Davide Cortese,  si è inaugurata la mostra “Incontri” con le opere olio su tela di Lina Morici e i disegni a china dello stesso poeta.

Incontri tra sguardi sognanti, sapori d’antiche empatie tra arti, stili diversi ma con la stessa provenienza, quella intima legata alla terra d’origine.

Le poesie di Davide Cortese che a prima vista possono apparire docili, con un forte legame alla propria terra,  celano un lato indomito di Davide, un temperamento colto ma libero da pregiudizi e dissapori, un modo di affermarsi poeta essendolo nel profondo del suo esistere.

Ma andando oltre, superando il verso lirico che Davide padroneggia con sapere e anima, continua la sua ricerca interrogandosi, adoperando con maestria e tecnica altri linguaggi coltivando anche la passione per le immagini.

Infatti diventa autore e regista del corto Mahara, un breve frammento di una leggenda antica, un filmato d’autore interamente girato nella meravigliosa cornice di Lipari sua città natale, il corto vince il primo premio EscaMontage a corto LFF di Bracciano 2013.

Inoltre coltiva la passione per il disegno, realizzando numerosi piccoli quadri dai soggetti stilizzati, ironici, spesso in posa per rappresentare un preciso atteggiamento socio-culturale. Il tratto netto ma pur sempre sincero aperto al dialogo con l’interlocutore, non cede alla tentazione di somigliare ad un manga, anzi, ne riesce a catturare quella ironia elargendola sapiente al contesto del disegno stesso.

Lina Morici definita post naif raffinata, accompagna il giovane autore, presentandolo ufficialmente nel mondo della pittura, accompagnandolo con una sua esposizione di preziosi e dettagliati quadri olio su tela, istantanee a colori di preziosi momenti sinceri, genuini, che narrano il profondo amore che l’artista ha nei confronti della sua città natale Roma.

Nonostante le sue opere sembrino possedere la forza vibrante della favola metropolitana, scavando nell’interiorità socio-culturale di questa sua visione armoniosa, si afferma un forte sentimento maturo nei confronti del colore che esuberante, si impadronisce fin da subito dello sguardo deliziato del fruitore.

Lina Morici con un’opera in esposizione perenne al Museo di Luxemburgo Gli emigranti che rappresenta le speranze di una famiglia in viaggio su una deliziosa e minuziosa barca fatta di giornale, fatta di fatti accaduti in quegli anni che trasporta le speranze e le giovani aspettative al di là del mare calmo.

Di lei molti hanno scritto ed appare nella “ storia dell’arte italiana del ‘900 generazione anni ‘40” a cura di Giorgio Di Genova.

Ad oggi in questo adesso dell’ iertecnologic-caos, dove sovrano regna un nuovo modo di esprimersi, da i social network alla computer-art, dalla connessione no limits alla tv-social, gli sguardi curiosi rivolti all’arte figurativa, si interrogano su quello che sarà il futuro. Un nuovo modo di essere nell’arte che riuscirà a dare vita ad una comunity tutta virtuale ad un new-word di incontri e riflessioni, non resta altro che sperare non perdere mai il contatto con il fare arte dove l’essere e presentificarsi nell’esistere, sia ancora riconoscibile in quello che solo l’uomo è in grado di esprimere, la sua coscienza ancestrale.

 

(Esca) Recensione: Monica Martinelli su Marzia Spinelli



Marzia Spinelli, Nelle tue stanze, Edizioni Progetto Cultura, 2012



di Monica Martinelli


Il rapporto tra poesia e dolore è intessuto a doppio filo, come quello tra la poesia e la perdita, a cui consegue necessariamente dolore. Se poi la perdita è quella della propria madre - che rappresenta la

Perdita, il distacco da quel cordone ombelicale che ci ha donato la vita - il dolore è ancora più grande, ed è un dolore unico, particolare, che ci accomuna tutti:
"A dimenticare la voce/ci vogliono anni, mi dicono./Parlano come sapessero/tutto dei morti. Hanno pena sincera di me,/straniera approdata./Stesso dolore, stesso cuore pesto.."



"Nelle tue stanze", seconda opera di Marzia Spinelli dopo la silloge poetica "Fare e disfare" edita da Lietocolle nel 2009, è un libro dedicato alla madre a seguito della sua scomparsa, pubblicato dall’editore romano Progetto Cultura nella collana di poesie "Le Gemme" curata da Cinzia Marulli, con una preziosa introduzione di Alberto Toni. In questi versi è possibile specchiarsi e riconoscersi per riflettere non solo sul senso della morte, delle emozioni generate e sull'elaborazione del lutto, ma anche sul concetto dell'inesorabilità del tempo che la poesia riesce a fermare e a rendere perennemente presente e vivido proprio attraverso la memoria: "L’amo della memoria/è una corda pendula, il gancio/su un’attesa da riempire..". Il gancio dei ricordi appeso all’anima.



Ecco altri versi ricchi di metafore sulla vita e sull’oltre, sulla frantumazione del tempo e dei ricordi che, come le foglie, si insinuano quasi a non volerci lasciare mentre altri, ancora troppo freschi, troppo leggeri, si alzano in volo e ci abbandonano senza traccia: "Le foglie rosse nella tua stanza,/inutile raccolta, insostenibile il vuoto/affacciato su questo nulla…le più frantumate s’insinuano negli angoli/del parquet divelto,/non avvertono, non lasciano traccia/le più leggere che volano via."
La sensitività, che è al tempo stesso sensibilità, emotiva dell’autrice è un asse portante nella sua poetica. L’empatia percorre il libro, e se da un lato la scrittura diventa un’operazione catartica per l’autrice, una modalità per lenire la sofferenza e magari anche il senso di colpa che una figlia fragile può provare dopo la scomparsa di un genitore pensando di aver "mancato" in affetto, in premure o comunque in qualcosa, dall’altro rappresenta un soccorso alla vita di chi resta, di chi legge e di chi prova lo "stesso dolore", un com-patire insieme, generando un mosaico di altre possibili o reali madri e figlie che si sovrappongono all’immagine di sé e di sua madre, come nella poesia ‘Negozio di pietre’: "Tace il pianto/sigillato tra le pietre/dove la figlia padrona fuma e vende quarzi,/dice buongiorno come te/la madre quando arriva". Effetti della nostalgia…

Illustri e noti poeti hanno dedicato poesie alla propria madre, tra cui Pasolini nella "Supplica alla madre" (citata in esergo), Alberto Bevilacqua in "Poesie alla madre", ma quella che più mi sovviene leggendo i testi del libro di Marzia è la "Lettera alla madre" di Quasimodo: "Ah, gentile morte,/non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro/tutta la mia infanzia è passata sullo smalto/del suo quadrante, su quei fiori dipinti:/non toccare le mani, il cuore dei vecchi."
Così anche la nostra poetessa parla di un orologio: "Se è il giorno o la notte fa lo stesso,/ l’autunno di adesso m’ha fermata/alla tua ultima estate/fisso a quel nulla il tuo orologio/continua a chiedermi che ora è", e quell’orologio non è solo una misura del tempo e dell’affetto filiale, ma di tutte le cose.
Questo libro non è un diario autobiografico e lamentevole, ma la descrizione della verità della realtà e del dolore. Lo stile è chiaro, pacato ma evocativo, mai eccessivo o forzato, non ci sono sbavature, ogni verso è al giusto posto. Una struttura liricamente ritmica e solida, versi asciutti, limpidi e densi: "Chiuse come urna nella tua stanza/le nostre verità, coltivavano tutte/spighe di grano, ciliegie che divoravi,/tra rami secchi d’ulivo benedetto,/e fiori,/di quelli almeno non ho mancato."

E un congedo dolcissimo e struggente lascia l’amarezza del ricordo, l’ultimo: "L’ultima stanza é l’ultimo giorno,/il più lungo, poi ti portano via".


(Esca) Cine-Recensione: Sarah Panatta



Una domenica notte. Cinema indipendente in Italia, paura?


di Sarah Panatta







A guardia del cimitero degli autori liberi. L’uomo che parlava agli zombie, ma voleva sterminarli. Antonio Colucci ha 36 anni, un figlio, una moglie quasi ex, una fidanzata isterica, un fonico che aspira panini e dimora in un loculo. Ed è un cineasta.
O meglio, la fotografia invecchiata di un speranza giovanile riposta in una videocassetta distribuita solo in Germania. Antonio è un regista. Appiattito in una quotidianità polverosa di steppe mentali e di intrallazzi politici più vecchi del mondo stesso. Per campicchiare realizza spot pubblicitari ai commercianti locali e collabora con le scuole. Mentre ragazzini nutriti di bianco e nero da genitori radical-kitsch lo deridono, e rampolli “Pip Pop” di un cinema industriale erede più di Maria De Filippi che di Quentin Tarantino, macinano set e finanziamenti. Imbavagliato dalla mafiosità mentale e dall’apatia terrorizzata e terrorizzante dei suoi compaesani, Antonio vive tra rimorso, vergogna, brama incancrenita di riscatto. E di fantasie.
Aggrappate allo spigolo di quel copione nuovo, che aspetta di essere girato. Ma senza un produttore e senza un distributore, come si fa il cinema? Un’impresa “da” paura.
Fare cinema in Italia difendendo idee poco “s-vendibili” è un’avventura ventimila leghe sotto le suole bucate della propria dignità. E’ una cambiale già scaduta, un contratto con la propria pazienza, una scommessa di sangue e sudori. E’ un incontro ravvicinato con l’ingordigia fraudolente delle (incrostate o scrostate?) paralizzate borghesie al potere. Una gita tra vampiri. Orrore puro. Per i cosiddetti indipendenti un suicidio, o nella migliore delle ipotesi un azzardo che costa anni, affetti, desideri.
Antonio è uno di “quelli”. Quelli che insonni ripassano le falle possibili della sceneggiatura. Quelli che “avrò chiesto anche al bar qui sotto se può farmi da sponsor?”. Quelli che se non hai un “amico” ai piani superiori non sali neanche di un millimetro. Portare avanti la perigliosa gestazione della propria opera e poi cercare, con strenua disperante attesa, i fondi per non affondare al primo ciak. Vagando tra le sagome spettrali di potenziali produttori e inermi collaboratori, figure spurie, a volte abborracciate, ma anche inquietanti, corrotte, spregiudicate. Un parco degli orrori. Senza effetti speciali. Tutta vita quotidiana.
Lo raccontano Giuseppe Marco Albano e Antonio Andrisani, rispettivamente regista e sceneggiatore di Una domenica notte, presentato da Distribuzione Indipendente e prodotto dalla neonata e coraggiosa Camarda Film, girato in cinque settimane con 500mila euro (tantissimi eppure briciole davanti agli investimenti dei cinepanettoni e cinecocomeri vari). Commedia nera, casalinga ma ambiziosa, meta-cinematografica, iper cinefila e mai confortante, tra il macchiettismo deliberato e la denuncia elettrica di sarcasmi mal sopiti.
Sipari surreali omaggiano l’Italia in cartolina di Ciprì e Maresco, mentre dolly ostentati dileggiano gli americanismi di molto cinema nostrano attuale. Gli autori scavano nell’esperienza diretta, tra i rifiuti e gli ostacoli monumentali delle proprie carriere, con la verve sanguigna e l’indugio ricercato di chi finalmente certi “strumenti” può padroneggiarli. Un inizio folgorante e disgressioni visive come ammaraggi improvvisi, dialoghi allucinati e rallentamenti vuoti. Un film squilibrato ma divertito e divertente quello del ventottenne Albano e del maturo e capace Andrisani. Che esplora il labirinto depressivo e violento delle “opere prime” e del cinema a basso budget obbligato. Quello degli autori senza “padrini”, senza chiavi d’accesso al potere delle forti major.
E il cinema diventa pretesto per la rappresentazione minuta seppur sintetica di una società insoddisfatta, stanca e titubante. Se i sogni sostituiscono la verità per cullare lo “scemo” del cimitero. Se l’arte muore di fame.
Resta aperto il dubbio. Come si fa a fare un film indipendente in Italia?
Forse una domenica notte…
 
Regia Giuseppe Marco Albano. Con Antonio Andrisani, Francesca Faiella, Ernesto Mahieux, Adolfo Margiotta, Anna Ferruzzo, Claudia Zanella. Sceneggiatura Giuseppe Marco Albano, Antonio Andrisani. Montaggio Francesco De Matteis. Fotografia Francesco di Pierro. Musiche Populos, Brunori Sas. Produzione Camarda Film. Italia 90’
 

(esca)Recensione: Canto dell'effimero

Canto dell'effimero di Eugenia Serafini
 
L’effimero non è il nulla e l’annientamento che, nel Novecento della letteratura e delle arti, hanno occluso ogni attesa e illusione e speranza. L’effimero ha una sua durata, quella di un solo giorno, ma il giorno – come per il “carpe diem” oraziano – può equivalere all’eterno se vissuto nella sua pienezza che è insieme stupore e terrore, ebbrezza e disperazione. E la poesia, parola chiamata per durare, dell’effimero fa pietra incisa, soffio mutato in accento. Eugenia Serafini non rifugge l’effimero se lo accoglie nel canto e, dunque, lo elogia, lo ferma, lo scandaglia, lo intona. E dove lo smembra fino al bisillabo, dove lo allude nel segno veloce o in uno stormo irrequieto , che altro fa se non toccarne la brevità e l’incompiutezza in questa fermandosi, e placa l’ansia nemmeno nominandola? In un tale effimero e nella sua attentata leggerezza si muovono e si pronunciano i momenti dell’esistenza, lacerti di verità accostate. Così la pena e l’allegria, il bisogno d’amore e la sua perdita, il dubbio che consuma e il desiderio che non s’arrende, il pensiero della morte e i meandri della memoria s’intrecciano e si alternano nei versi brevi, nelle frasi in corsa per declivi di inchiostro sottile, dietro cancellature che lasciano trapelare il negato e l’incauto.
Se tutto di questo libro è un viaggio, anche un trascorrere interiore di continuo segnato da una quotidianità cercata, in ogni frase e foglio la grazia e la tenerezza, la nostalgia e il rimpianto si elidono tutti in un vagheggiare di velata melanconia. (< Lascia che torni / un effimero lieve / memoria di affetti / Infantili / lascia che mi abbracci / mi avvolga in / dolci carezze e / baci di madre / di padre / lascia che torni in / effimero gioco.>) E tutto perviene a un segno corto e conciso che rappresenta uno stare. L’epigrafe di Peter Handke, posta ad apertura del libro, dichiara: < La durata è il mio riscatto, mi lascia andare ed essere.> Dunque, questo durare è fuori delle misure conclamate, fuori delle pretese e delle paure; e l’effimero, vacillante sul baratro, s’apre sul vuoto e respira.
Elio Pecora
Eugenia Serafini
Eugenia Serafini
Canto dell’effimero

(Esca) Anteprima: Aureliano Amadei


I corpi e il "campo" secondo Aureliano Amadei

L’esperimento ultra-scenico del giovane regista con i ragazzi dell’Accademia Cassiopea di Roma

 

Di Sarah Panatta

 

Dentro e fuori dal “campo”. Il corpo esiste e si annulla nel recinto del buio. Il “buio” si fa, respira, emerge attraverso il corpo.

Il campo, dove nasce e muore in un unico battito/presa/“quadro” l’azione, la vita emulata, rappresentata, ingannata. Dove il corpo diventa insieme mente e atto. Un gruppo di studenti, un palco che può diventare invisibilmente strada, specchio, bosco, incubo, spiaggia, processo, casa, bara, automobile, antro puramente cerebrale, inferno. O semplicemente palco. Quattro telecamere, quattro luci. Coppie di attori come grumi di materia calda, sparsi su una superficie neutra/buco nero/pa(e)ssaggio mentale. Uomini e donne bloccati in una singola notte, replicano un gioco al massacro, un’ultima possessione o illusione, sulle note dell’emblematica, nervosa Kim, del rapper Eminem. Un esperimento interattivo ardito, tra cinema, spazi interpretativi, capacità attoriali e forme di improvvisazione finzionale. Dietro le macchine con Aureliano Amadei.

Conosciuto e premiato per i lungometraggi 20 sigarette (2010) e Il Leone di Orvieto (2013), e per il lavoro teatrale L’arma (2013), Amadei è un regista giovane, testardo, visibilmente animato da un desiderio di sperimentazione, una spinta probabilmente ontologica, prima che creativa, che necessita l’elasticità di un contesto produttivo invece paludoso e ostile. Un autore alle prese con le complessità proprie e del mondo, che accetta le realtà come conflittuale e ambigua e per questo vuole analizzarla con la propria arte dichiaratamente militante, civica. Un autore che nonostante le esperienze “estere” continua a scrivere e dirigere in Italia, cercando la via della seta direttamente nel Paese natale.

Paese in cui la “grande” produzione cinematografica è diventata autoreferenziale monopolio e dove si trasforma in oltraggio e in rischio la determinazione a crescere un progetto indipendente nelle idee ed eterodosso nei contenuti – che scantoni dal gracchiato turpiloquio afilmico del 90% del cinema italiano, cinepanettone in formaldeide ormai riciclato, digerito e rivomitato nei dodici mesi, con surplus di commedie prive di script, enormi palesi contenitori pubblicitari. Nel cinema catena di montaggio multinazionale, menti visionarie e fertili come quella di Aureliano Amadei hanno bisogno di attecchire ed esplorare in territori ancora non colonizzati dalla furia molesta del mainstream che tutto appiana e logora. In questa condivisibile ansia di libertà e di invenzione si inserisce e si dipana il lavoro di Amadei con gli allievi dell’Accademia Cassiopea di Roma, nella quale Amadei insegna recitazione cinematografica. Ci siamo infiltrati in esclusiva amichevole per osservare Amadei all’opera, come insegnante e non solo.

Educare ragazzi sulla soglia del professionismo attoriale, a muoversi e muovere l’azione nello spazio scenico, che si modifica con loro. Ad agire un racconto seguendo fermamente le tecniche acquisite ma lacerando le inibizioni, violando la bidimensionalità teatrale, assorbendo e dominando l’ottica del “campo”. Lasciarli abituare con tutta la naturalezza possibile alla tridimensionalità di un “palco” che a telecamera accesa diviene “campo”, universo geometrico di riproducibilità scenica, spazio-tempo di una storia in sé chiusa eppure espansa. La telecamera si offre e taglia, (co)stringe, supera o aspetta, l’attore/personaggio la cerca, suscita, vince, perde, recupera. Il senso dell’azione e della storia vibra, cambia, migra da un campo all’altro, da un’inquadratura all’altra. Una missione multipla quella prefissata da Amadei.

Che in una prima fase ha fatto esercitare la sua classe sulla drammaturgia del testo di Eminem, piccola pièce tripartita, già pronta da riconvertire e abitare. Un lavoro individuale, poi di coppia, quindi collettivo. Imparando la canzone e figurandone la vicenda, cruenta e convulsa, quindi divisi in coppie, i ragazzi si sono trovati ad addomesticare il sincro dei versi aspri del rapper alla propria visione di quella lite furibonda e tragica tra un uomo tradito e la “sua” donna. Memorizzazione, immedesimazione cronometrica, misurazione dello spazio scenico, e contestuale deragliamento dei sensi, esplosione, occupazione di quello che si spezzerà in un plurimo campo, rivissuto da più coppie in simultanea. L’elemento cinematografico irrompe nella seconda fase del lavoro. Quattro telecamere si spostano, in una danza non casuale, da una coppia all’altra, focalizzando istanti distinti e diversi dell’azione. Ecco che la finzione è vita non quando il sipario si apre/chiude su di essa, bensì solo quando la telecamera definisce il campo e gli interpreti lo delimitano, agitano, prendono e fuggono.

Le telecamere aprono un varco, in medias res incontrano i corpi attoriali e insieme si incantano, in provvisoria sintesi, dialogo, combattimento. I corpi devono aggrapparsi alla luce o in essa smarrirsi, comprendersi e plasmarsi. Sentirsi e sentire la tridimensionalità. Dentro e fuori il campo.

Terza fase sarà il cortometraggio sperimentale, in queste ore al montaggio, che vedrà protagonisti quei corpi, e quelle inquadrature. Dramma e insieme videoclip musicale, puzzle ricomposto e ultracorpo che vive della propria deflagrazione e resurrezione.

Questioni di campo.


CAST E CREW


Idea e regia Aureliano Amadei
Con gli studenti dell'Accademia Cassiopea, II e III anno
Riprese Aureliano Amadei, Giuliana Fantoni, Iolanda La Carrubba
Direzione della fotografia Luca Ranzato
Luci Adriano Amadei, Paolo Amadei, Sarah Panatta

 

http://www.cassiopeateatro.org/  

(Esca) Racconto: Sergio D'Amaro

Tempi barbari


un racconto di Sergio D'Amaro







Non so più da quanti anni riposo sul penultimo scaffale a sinistra della biblioteca alquanto disordinata di Isidoro Curtorivo. Non so se lo sapete, ma la vita di un libro non è delle più facili, né gli vengono accordate molte gratificazioni. Si aspetta per molto tempo che una mano almeno generosa ti stringa con malcelato cinismo, sottraendoti all’oblio e riportandoti sul sentiero aspro della conoscenza. Allora una calda speranza invade le fibre inaridite e rinverdisce stagioni ormai trapassate, disegnando un sorriso inaspettato in mezzo ad una stazione piena di orari e di viaggiatori.

Non che la mia vita sia stata un tappeto di velluto ipnagogico, giacché i complicati trascorsi di Isidoro mi avevano più volte fatto cambiare casa, ambiente, posizione. Isidoro serbava un’incontenibile irrequietezza che lo aveva spinto senza sosta ad innumerevoli spostamenti da un luogo all’altro di una sua folle geografia. Più volte mi ero visto scaraventato sotto una fila di libri o nascosto dietro gli ampi fascicoli di riviste come il ‘Naviglio d’argento’ e ‘Metafore dell’ignoto’. Poi, miracolosamente, come dopo un sonno ristoratore, m’ero ritrovato di nuovo esposto agli occhi distratti di Isidoro, indaffarato a seguire suoi progetti tra mille carte sparse sul tavolo e per terra. Spesso seguivo le sue brevi, esaltate performance alla macchina da scrivere, dove le sue dita scattavano nervose per un’idea creduta geniale o per un progetto subito abbandonato. Quell’uomo ancora così giovane e così inquieto appariva del tutto aderente all’età che stava vivendo, preso nel vortice di una bufera dominata da contrapposizioni ideologiche e molte volte obbediente a sperimentazioni senza sbocco.

La prima volta che Isidoro aveva aperto quel libro misterioso risaliva agli albori della giovinezza e agli studi particolari che aveva scelto di intraprendere sulla scia di un puro piacere temporaneo. Era bastato ascoltare una conferenza alla Sala Redondi sulle complicate connessioni tra Basso Impero ed epoca barbarica per sollecitare in lui il sapore di un antichissimo cielo. Era stata l’intuizione di un mistero, lo strano, stranissimo desiderio di ritrovarsi, per non so quale miracolo della macchina del tempo, immersi in un secolo vicino alla caduta di Roma. Isidoro si figurava quel tempo come avvolto in una nebbia smemorante, intrisa di un colore lattiginoso. Quella visione, quella fuga piacevole, quel fantasma che da allora s’era affacciato come un sogno irrinunciabile, riempiva i momenti di sconforto. Era allora che si avvedeva che la fine di qualcosa coincide con l’inizio di un altro periodo, che una svolta, anche se drammatica, è in fondo frutto di un’impercettibile evoluzione, che nulla davvero si arresta ad un fermo risultato, ma invece si proietta in una direzione possibile che forse sarà vincente.

Su una delle strade che uscivano da Roma, Isidoro aveva colto il barlume di una comprensione superiore della storia. Nella Libreria Berardi, oltre ai libri di varia e di narrativa, dietro un capace cavalletto pieno di riviste, egli aveva potuto sfogliare un libro dalla copertina nera e blu. Erano strisce marcate sottostanti una scritta tutta bianca in caratteri che ripetevano l’antica carolina d’un imprecisato secolo attorno al Mille. Un’immagine irresistibile, misteriosa, audace, eppure antica nella sua testarda eredità, tanto da causare in Isidoro un’improvvisa vertigine di piacere. Si trattava di un libro erudito, preannunciato nella sua profonda dottrina dai colori della copertina. Ma questo suo carattere era piuttosto il segno di qualcosa di ancora più profondo, di qualcosa di ancora più antico, come se quelle pagine avessero un magnetismo speciale, capace di evocare immagini, profili, movimenti così distintamente avvertiti da riportare in vita intere vicende primordiali.

Con quel libro in mano Isidoro compì la svolta della sua giovinezza. Sulle strade che si diramarono da Roma durante i primi decenni dopo la deposizione di Romolo Augustolo, il suo spirito ipersensibile incontrò il sogno di una trasformazione annunciata nei testi della tradizione classica. Il clamore delle battaglie, lo scontro feroce di chi voleva salvare contro chi voleva distruggere, si levò fino ad ingigantirsi convocando sulla piazza sterminata del futuro i nomi stupefacenti di Cassiodoro, Boezio, Aviano, Sidonio Apollinare. Un mondo, poi un altro, così prefigurando anche per il tempo che avrebbe vissuto direttamente una speciale disposizione a conservare il testimone vivo del passato.

Non fu facile mantenere al timone la sua giusta barra. A quella specie di folgorazione seguirono stagioni di quasi intollerabile incertezza, di oscurità illuminate col sorriso dell’ironia, di umiliazioni elevate ad atletica resistenza. Per Isidoro fu importante ubbidire a sentimenti sempre più imperiosi, adattarsi ad una condizione di un naturale mercato di compromessi. L’immagine giovanile di una resurrezione, l’invito alla speranza che nulla si perde del tutto, la scommessa sul fatto che i tentativi valgono pure la frustrazione di un insuccesso, si depositò sul fondo standard di un Novecento benestante e soddisfatto. Isidoro scavò sempre più nella creta mobile del suo destino, plasmandone i miti, i paesaggi, i contorni più amati o più memorabili. Il tempo era una ruota che muovendosi lasciava cadere infinitesimi brandelli di terra spostata. Lo stesso apparente congegno, ma diretto di qua e di là secondo una linea pulsante, capricciosa, imprevedibile.

Quel colore blu e nero fissato molti anni prima si confuse ad altre mille sfumature, ad altre innumerevoli visioni. Si sciolse e si ricompose senza più possibilità di essere distinguibile, quando soprattutto i fari potentissimi di una discoteca cominciarono a riempire quello che gli occhi desideravano. Fu quasi un’allucinazione, un potenziamento di cecità talmente persuasiva da risultare piacevole. Mentre per le strade di molte città alcuni barbari assecondavano i richiami di guerra, Isidoro decise di scegliere la calda cioccolata dei Past Fever e di tutti quelli che cantavano uniti con le mani. Che bei Natali trascorsero insieme e come felici salutarono il nuovo anno!

Spinta dalla forza dei giorni, l’eco di quelle vicende era giunta fino all’anno 1999, degno delle sue cifre inquietanti. Sospeso nell’aria si avvertiva come un annuncio, come qualcosa che dovesse rivelarsi in tutta la sua forza divinatoria. Forse la tempesta del Bois de Boulogne, forse la morte di Johan Anellis, forse il crollo delle quotazioni di Standard Opportunity si congiunsero in una combinazione depressiva che produsse quella strana atmosfera di imminente catastrofe. Sentire vicina la fine di un mondo, tremare di fronte ad un altro anno Mille, prefigurare altri rovinosi tempi barbari, fu rabbrividente come una lama ghiacciata. Era stato così naturale arrivare fino a quell’anno scendendo rapidi le scale del Novecento ed ora se ne rimpiangevano tutti i momenti, tutte le occasioni, tutte le promesse!

Isidoro si ritrovò smarrito nei corridoi dell’abbazia di Valmartina. Stordito da quell’austera semplicità, da quell’autorevole mistero che si adagia come un fantasma sui muri scabri degli edifici secolari, si sentì pian piano scivolato in una quiete paradisiaca che sembrò d’un balzo ritornato alla sua infanzia. Le luci dell’impero erano state come quelle uscite gagliarde dai fari dei Past Fever. Ora le lampade soffuse di quell’antica fabbrica lasciavano librare la memoria e riattivavano il flusso del pensiero. Cosa fare di fronte ad una svolta, cosa desiderare prima dell’alba del mondo nuovo?

Seminate lìttere, diffondete sapientia, considerate radices. Come una parola magica, come un oracolo stava risuonando il Duemila. Isidoro non era certo che qualcosa si fosse rotto negli orologi, né che sopravvenisse una nuova era. Non credeva nei cinesi né nelle leggende dei Maya. Era stato solo rapito per un attimo da un’atmosfera irreale e seguendone il profilo ondulato s’era ritrovato già dall’altra parte.

Così avvenne che anch’io, in copertina blu e nera, doppiai il secolo. Non se ne avvide nessuno, né tantomeno il mio distratto padrone che nell’ultima visita allo scaffale mi aveva spostato ancora più in basso. Ero rimasto così dopo quarant’anni in bilico sul precipizio di un lungo oblio. Potei perciò assistere in questa posizione alle maggiori trasformazioni dell’umanità. Chiusero le serrande delle officine, vennero popoli dall’Africa, caddero alteri grattacieli. Mai che Pierre de Richefort facesse una grinza, corazzato nella sua divisa sgualcita da folle alfiere di altri tempi barbari.

(esca)Foto-poesia: Fernando Della Posta





Gli aloni del vapore d’inverno




Gli aloni del vapore d’inverno

che anima le bocche degli amanti

sono i veli pieni e lampeggianti

degli aquiloni in volo spinta a spinta:

follia che ci sostiene sopra i rami:

e ogni fiato si rimescola nel bacio

della vita che si agita nel mondo

difesa o tocco e di rimando

che sia di morso o lingua a lingua.

 

Fernando Della Posta - 29/10/2013

(esca)Poesia: Lorenzo Poggi


L’uva asprigna

Assaggio quest’uva asprigna

scesa dalle colline brumose

e cresciuta nel fango

dei filari zappati a mano.

Non è generoso il clima su queste colline.

L’autunno comincia ad agosto

e l’inverno è lungo sei mesi.

La gente ha lo sguardo duro

e scruta il cielo con la mascella serrata.

Quando cade la neve

ci si chiude in casa,

nel camino si consuma il legno

tagliato a misura d’estate

e accatastato nel ripostiglio protetto.

 

Darà vino asprigno con sapori di zolfo

quest’uva che non vuol maturare.

Ma la gente di qui non se ne preoccupa.

Sono secoli che beve vino asprigno con sapori di zolfo.

La gente qui ha lo sguardo duro

e sfida il cielo con la mascella serrata.

Sono quadrate qui le mascelle, uomini e donne.

Sono facce scolpite nel legno

nei lunghi inverni davanti al camino.

Sono facce che sanno del fango

quando scende dalle colline brumose.

 

Arriva la sera col fieno sopra la testa

per il mangiar dei conigli, il trogolo per il maiale,

il vitello che scalcia nella stalla impaziente.

A cena il tavolo vicino al camino

che fa luce fioca su sedie di paglia

abitate da facce con mascelle quadrate

lo sguardo fisso per una preghiera,

la minestra che fuma nella scodella.

 

Torna l’alba per andare nei campi,

la zappa e la vanga per l’orto,

i buoi a tirare l’aratro, il vomere che scava la terra,

e ancora, alla semina, metterla incinta.

Le facce scolpite nel legno scrutano il cielo

senza un lamento perché tutto è già scritto

e non ci si può fare niente.

 

Sale la bruma dalle colline,

attacca i filari di vite nel fango

ne sconvolge i sapori,

fa asprigni i filari dell’uva.

Ma la gente di qui non se ne preoccupa.

Sono secoli che qui la gente

beve vino asprigno con sapori di zolfo.


Lorenzo Poggi

(esca)Poesia-Rosaria Di Donato

Tracce

stasera le nuvole han forma di boomerang
il cielo promette bel tempo
annunzia un domani sereno
non v’è traccia di buio nell’anima


Rosaria Di Donato

(Esca) Cine-Poesia: Sarah Panatta

Un canto gitano


(cine-poesia ispirata a Inside Llewyn Davis, un film di Joel e Ethan Coen, USA 2014)


di Sarah Panatta




Fumo sullo sgabello
corpo indugiato
non posso, oh regina,
impedire il tuo fianco squarciato.
Giù dal detto e ridetto
nel sottoscala appiattito
non posso vedere
l'ennesimo volo spezzato.
Marinaio di ventura
senza mostrina, scruto
altri destini, già sbattuti
in vetrina.
Disteso sul cappotto
di un amico straniero
sfrego un accordo, solitario
e disfatto.
Canto maldestro
per il mio gatto gitano
che scapperà.
Mentre io tornerò
dall'eterno sfratto.
Sullo sgabello
di fumo
corpo indugiato
a te
piegata regina
il mio unico
fiato

(Esca) Poesia: Mohamed Malih

Quando sei diventato poeta

In questo pomeriggio che sa di pioggia
distenditi
prendi i ricordi uno ad uno
fallo teneramente
torna a quand'eri bambino
e camminavi sulla terra
e guardavi il cielo
torna a quell'atrio
quando hai scoperto che l'attesa
era un'assenza
al tempo in cui l'ombrello
ti era d'impiccio
ma non sempre pioveva
ti ricordi quel campo
la ragazzina con le treccine
aveva preso una spiga
te ne aveva messo i chicchi nel palmo della mano
a quando parlavi con i sassi
e ridevi insieme al tuo cane
alla tortora che avevi ferito
te n'eri molto dispiaciuto
e hai scoperto che non eri un cacciatore
forse era quello il tempo
che sei diventato poeta.
Distenditi, chiudi gli occhi
e ricorda
il primo  giorno di scuola
la solitudine che provavi accanto al papà
forse era lì che sei diventato poeta
ricorda le vie dove hai camminato
ah quante vie hai camminato
pensa alla gioia di quando di lì a poco avresti incontrato il tuo amico
a quando hai scoperto l'altro
nel viso rugoso e scuro del contadino
forse è stato quello il momento che sei diventato poeta
pensa ai primi versi
alla prima canzone che ti ha fatto piangere
ricorda le cose che cui per pudore non scrivi
che non sai ancora scrivere
ricordi, eri sempre un po' distante
sempre ospite
sempre straniero
la gente dice che son fatti così i poeti
ricorda
la terra calda di sole
la terra scura di pioggia
il campo di grano
la tortora
l'attesa
l'assenza
ricordati
del giorno che sei diventato poeta.

(Esca) Poesia: Chiara Mutti


SEMINERÓ NEL TUO CAMPO

 

Seminerò nel tuo campo

la mia voce,

che la mio eco

ti renda schiavo,

che tu possa essere lì

dove metto il punto alle parole

perché sottintenda l’a capo.

 

Resta vigile e aspetta

come il cane pronto

a radunare il gregge,

che le tue carezze

sfuggono al recinto

e la bestia é sempre pronta

a ingoiarle.

 

Forse non sai che io presiedo

l’ora tarda, l’ora

in cui il sonno s’affaccia.

Che tu possa essere lì

dove i passi si arrestano,

al limite

oltre cui l’abisso

prosegue la caduta.

 

Metti un freno alla mia gioia

che grida

per seppellire i morti,

le mie gambe

hanno raggiunto la vetta.

Che le ginocchia

non si pieghino al vuoto,

non si pieghino

davanti a dio!

 

Io sono il solco

scavato nella gola

per depredarne il fiato,

sono nell’acqua tumultuosa.

Non puoi

contenermi alla fonte,

 

plasmerò per te

la tua incompresa

corrotta aspirazione.






Chiara Mutti