sabato 1 febbraio 2014

(esca)intervista-Davide Cortese


IL CLOWN E IL SUO LINGUAGGIO. Intervista a Rosa Masciopinto
di Davide Cortese


Da sempre innamorato della stralunata e poetica figura del clown, ho chiesto a Rosa Masciopinto,  che è clownessa - come lei stessa ama definirsi - dal 1978,  di parlarmi del  pagliaccio e del suo linguaggio. Rosa, che è di origini calabresi e ha vissuto a lungo a Parigi,  conta tra i suoi maestri i grandi Philippe Gaulier e Jango Edwards, è attrice, drammaturga e regista e ha insegnato Improvvisazione e Drammaturgia dell’attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, all’ Accademia del Teatro Bellini di Napoli e attualmente alla QAcademy (ex AIAD) di Roma. E’ stata anche docente di Tecniche di Commedia dell’Arte in Italia, Francia, Spagna, Canada e Stati Uniti.


Rosa, mi piacerebbe che tu ci parlassi del clown. E soprattutto del tuo clown.

Io penso sempre che il Clown sia un meraviglioso idiota e che il suo lavoro è far morir dal

ridere gli spettatori: lo scrivo sempre in tutte le presentazioni dei miei corsi sul clown.

Io non sono un clown di professione, ma il mio clown lo conosco bene e sta sotto tutte le cose

che faccio: scrivere, dirigere, insegnare, recitare…

Nella vita non sono persona facile: di origini calabre della zona sibaritica, non posso mai

separarmi dalle mie radici che affondano nella cultura tragica della mia gente.

Quando, da piccola, facevo scherzi e giochi stupidi, mio padre mi rimproverava sempre

dicendo: “Smettila di fare il pagliaccio!”, senza alcuna consapevolezza di indicarmi un destino.

E’ stato sempre troppo pesante portarmi dentro e addosso tutta quella serietà che mi veniva

imposta, per questo – quando ho fatto ridere un pubblico di studenti di teatro per la prima

volta – quasi non mi riconoscevo: ma ho riconosciuto immediatamente quel destino.

Se non so ridere io – ho pensato – posso far ridere gli altri!

Ridere è una delle cose più belle che può accadere a un essere umano, quindi saper far ridere

è dote di quell’attore che lavora per la gioia del pubblico.

Per questo ho deciso di diventare un clown prima e un’attrice poi.

In seguito ho scoperto che i giochi e le improvvisazioni potevano essere “ripetute” e quindi

sono diventata un’autrice/drammaturga, di conseguenza una ricercatrice.

L’ho scoperto insieme alla fortuna di incontrare un paio di “good friends”, clownesse con le

quali ho fatto e disfatto compagnie, fatto radio, cinema, televisione…

Infine ho scoperto che sapevo e potevo insegnare come si fa il teatro, non solo quello più

classico, ma soprattutto il mio teatro, quello che non può fare a meno del clown.

E’ stato un percorso pieno di scoperte. Mentre nel mondo c’erano quelle scientifiche e

tecnologiche, riguardo all’umanità ce ne sono state altrettante, tipo quelle che magari stanno

lì da sempre e, proprio per questo, non vengono mai viste.

Una importante è stata che ridere è un fenomeno universale e questo vuol dire che tutti

possono capire un Clown. Ecco perché ho potuto viaggiare pur non conoscendo molto bene

l’inglese!

Accanto a questa grande qualità, il clown ne ha un’altra meravigliosa: è contento di mostrare

quello che fa, è come un bambino che fa vedere a papà e mamma il trucco che ha appena

imparato. Tutti siamo stati bambini, tutti siamo stati divertenti, poi l’abbiamo dimenticato. Il

clown invece continua a ricordare…

Siamo tutti dei clown: ci crediamo belli, intelligenti, forti, eppure abbiamo tutti delle

debolezze, dei lati ridicoli che, esprimendosi, fanno ridere. Il Clown non si vergogna e non si

nasconde, anzi si mostra perché, così facendo, il pubblico - ovvero mamma e papà - ride.

A differenza degli altri personaggi dello spettacolo, il clown ha un contatto diretto e

immediato col pubblico: non può vivere che con e sotto lo sguardo degli altri.

Non si può fare il clown davanti al pubblico, lo si gioca col pubblico.

Il clown non è un personaggio, non esiste al di fuori dell’attore che lo gioca, è l’attore stesso

che gioca il gioco della verità: più è sé stesso, sorpreso in flagrante debolezza, più è buffo.

Non gioca un ruolo, ma lascia andare l’innocenza che è in lui e - quando fallisce il proprio

numero o mostra le difficoltà che subisce, permettendo allo spettatore di sentirsi superiore

– “svela la sua natura umana profonda che emoziona e fa ridere” (Philippe Gaulier, che poi è il

mio maestro) .

 

Quali sono gli spazi ideali per il clown?

 

Il teatro e la strada sono spazi ideali per un Clown, perché permettono alla performance di

esistere nel tempo reale, in un assoluto presente che è scambiato e condiviso da persone vive

con persone vive. Le condizioni sono quelle assolutamente necessarie: attore, pubblico, luce, non c’è bisogno di nient’altro. Né scene, né costumi, né oggetti…

Il clown è un bravo “mimo”, con i suoi gesti e la sua voce può convincerti a immaginare di

nuotare sott’acqua, di incontrare alieni, di parlare con dio, di mangiare, di fare una corsa in

moto o di scappare dai vampiri… insomma praticamente tutto l’immaginabile…

Ma anche il cinema ha rappresentato una bellissima casa per i clowns: Buster Keaton, Charlie

Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy, ma anche Benigni e Totò ci hanno regalato – in modo

indelebile – momenti meravigliosi di divertimento e incanto. In TV i Clown (o almeno quelli che io ritengo tali) non li riconosco negli attori, quanto nelle persone vere, riprese in tempo reale: le candid camera, gli scherzi anche crudeli, gli incidenti di vario tipo, le reazioni di meraviglia autentica rispetto ad accadimenti inaspettati…

Ci sono rubriche ( per esempio di Striscia la Notizia ) di incidenti che accadono alle persone

vere, che mi fanno veramente ridere, perché mi accade quello che faccio accadere quando

sono clown.

Quando assisto a un numero di clown – di un bravo attore o di una persona reale - mi sento

superiore a quello stupido che cade sbattendo il muso per terra. Quando quello scemo stava

per cadere, mi ero identificata con lui, ho provato la sua stessa paura o disorientamento.

Dentro di me si è scatenata molta tensione: quando il clown (attore o meno) cade, quella

tensione cala di botto: si tratta di una reazione biochimica del corpo umano che si traduce in

uno scarico immediato, repentino: è lì che sorge il riso.

E’ una zona che un bravo attore conosce bene: è la stessa del grido, del pianto e della

bestemmia.

Il clown regala allo spettatore la certezza di essere molto più intelligente e molto più in

gamba di quel cretino spiattellato al suolo, una certezza che dà molto piacere, il piacere di

sentirsi migliori. Non è poco, no?

 

Di quale cultura si nutre il tuo clown?

Di tutto.  Più la persona/attore è sensibile al mondo, più le gags del suo Clown arrivano al cuore di tutti.  Da Clown recitavo una poesia di Tonino Guerra che era sicuramente un grande intellettuale, ma le sue parole, così semplici e così vere, erano un ottimo testo per un clown.

Ma attenzione! Psicologie o intellettualismi uccidono ogni spontaneità…

Il pensiero intelligente è un buon amico del clown, ma non il pensiero psicologico che è nemico

tanto quanto la volontà: il clown non vuole mai niente, non lo pretende.

Il clown raramente propone, in genere reagisce soltanto.

 

Cosa puoi dirci a proposito del lessico del tuo clown?

 

Anche per quanto riguarda la lingua e l’uso delle parole, il Clown è l’essere più libero che io

conosca: ama tutte le lingue e tutti i dialetti, i suoni, le note e le onomatopee e va anche

oltre, spesso creando dei personalissimi gramelot . E’ il suo modo di farsi capire ovunque e da chiunque…

Ama inventare le parole e i modi di dirle, a volte si spaccia per poeta e spesso lo è veramente!

Ed è il suo trucco per non farsi mai censurare!

Quali parole predilige il linguaggio del tuo clown? Perché?

 

Il mio Clown è molto cambiato nel tempo, così come è cambiata la persona/Rosa.

E così il mio linguaggio teatrale che si è arricchito e ripulito, via via che mi nutro di cultura, si

è liberato con la maturità delle esperienze della vita: gli amori, i lutti, le paure, i successi, le

disperazioni…

L’insegnamento mi ha felicemente costretta a inventare continuamente parole nuove per

comunicare meglio. E’ insegnando che ho scoperto il grande potere delle immagini.

Quando, nel ’77 urlavo nelle piazze “Fantasia al potere”, ero consapevole solo in minima parte

di quel famoso destino di cui sopra.

Quando il mio Clown riesce a far ridere saltando pericolosamente dai significati allo sberleffo, quando riesce a non perdere l’equilibrio e precipitare nel patetico, quando fa acrobazie tra la merda e le stelle… io sono felice…

Quando i miei attori comprendono come fare per poter volare nell’immensità dell’essere umano

e poi atterrare o cadere senza farsi male… io sono felice!

 

Che relazione c’è tra il clown e la poesia?

 

E’ la stessa relazione che esiste tra me e dio. Non ci credo, ma lo sento.

Dio lo sento nei momenti perfetti che offre il palcoscenico – in prova, a volte – e il deserto del

Sahara – ci sono stata molte volte. Lo sento in quegli attimi completi - e infiniti nello stesso

tempo – che offrono i bambini, la risata di un vecchio, il colore di una nuvola, la miseria di un

barbone, il lamento di un malato che muore, l’imprevedibilità di un gatto…

Sento la poesia in uno sguardo innamorato, nella scritta su una lapide e la sento nella vergogna,

nella rabbia, nel dolore, in un artificio teatrale, in una storia inventata, nella crudeltà della

vita e anche in un’ immagine che si crea dentro di me improvvisamente, come un miracolo.

Lampadine o stelle ? Alla poesia e al clown non importa: basta che dio faccia luce…

 

Dietro a uno spettacolo c’è solo improvvisazione e oralità o esiste un momento di

scrittura?

 

Per il clown il gioco è all’origine di tutto: il piacere e il desiderio, non già di piacere, ma del

piacere di giocare: per questo ha bisogno di tenerlo sempre vivo questo piacere, cercando

di amplificarlo in ogni momento ed è per questo che ha bisogno della complicità col proprio

partner e col pubblico.

Improvvisare - saperlo fare – vuol dire vivere – poco magari, ma intensamente - con

freschezza, apertura e generosità e – contemporaneamente – convivere con il rischio di fallire.

L’attore/clown si obbliga a seguire lo stato d’animo e le sensazioni del momento stesso in cui

avviene l’azione, per rinnovare continuamente la capacità di reazione e lo stato di stupore che

l’inaspettato causa necessariamente: ogni incidente di percorso, ogni reazione del compagno di

gioco o del pubblico stesso è stimolo di nuova creazione e di rinnovato piacere del gioco.

Il clown è sempre in stato di reazione: al significato delle parole, al pubblico, ai compagni di

scena, anche e a sé stesso. Non dice, solo risponde…

Quindi l’improvvisazione è l’ideale per un clown, ma questo non impedisce di “poter ripetere”

ovvero “re-citare”: grandi Clowns che fanno parte della generazione dei miei maestri – alcuni

non ci sono già più (Dimitri, per esempio) – spesso avevano un numero solo con cui andavano in scena, sempre! Ovvero – nel caso di Dimitri – per più di 40 anni!

Poi ha fondato una Scuola di Teatro, unica in Svizzera, che insegna agli attori, ai registi e agli

autori a essere originali, come quella di Lecoq a Parigi: una scuola di Creazione, non solo di

recitazione.  

Sono da poco tornata a vedere i miei da sempre paralleli e amici “Donati&Olesen”, un duo che mi fa ridere come una bambina con numeri che vedo eseguire da Giorgio e Jacob fin da loro esordio nel 1982…

Slava ha addirittura creato uno show che ora non interpreta più, ma continua a mietere successi da anni in tutto il mondo, interpretato esattamente come da scrittura scenica originale da altri clowns: non smetterò mai di tornare a vederlo, perché i vari clowns che si alternano nelle varie riprese, a volte sono bravi, a volte no, a volte apportano qualcosa di personale, ma sempre stando esattamente in partitura.

Leo Bassi – grande provocatore - fa da trent’anni gli stessi numeri, ma li collega tra loro con sempre nuove riflessioni, politiche e umane. E poi c’è Jango Edwards che ne ha 381, di numeri!

Per tornare alla scrittura (vivente o ripetibile) – se devo pensare a un numero di clown per

me o per uno dei miei attori – scelgo di partire da un “gioco”, uno solo, rischiando di portarlo

in scena senza sapere dove mi porterà, senza conoscerne il finale: a volte il finale arriva e ti prendi l’applauso, a volte non arriva e il gioco continua, si trasforma, passa e va: dove va? Non si sa...

Per gioco intendo proprio un gioco: essere un idraulico, svitare una lampadina, salutare… A

volte è solo una musica, o una parola… un suono… avere paura o essere innamorato…

Giochi: azioni, immagini o stati d’animo lo possono essere.

La creatività del Clown, la sua capacità di reagire in tempo reale è una risposta alla vita, uno

stupore di fronte alle sue infinite variazioni.

                                                                                               Davide  Cortese

 

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