IL CLOWN E IL SUO LINGUAGGIO. Intervista a Rosa Masciopinto
di Davide Cortese
Da sempre innamorato della stralunata e poetica figura del clown, ho chiesto a Rosa Masciopinto, che è clownessa - come lei stessa ama definirsi - dal 1978, di parlarmi del pagliaccio e del suo linguaggio. Rosa, che è di origini calabresi e ha vissuto a lungo a Parigi, conta tra i suoi maestri i grandi Philippe Gaulier e Jango Edwards, è attrice, drammaturga e regista e ha insegnato Improvvisazione e Drammaturgia dell’attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, all’ Accademia del Teatro Bellini di Napoli e attualmente alla QAcademy (ex AIAD) di Roma. E’ stata anche docente di Tecniche di Commedia dell’Arte in Italia, Francia, Spagna, Canada e Stati Uniti.
di Davide Cortese
Da sempre innamorato della stralunata e poetica figura del clown, ho chiesto a Rosa Masciopinto, che è clownessa - come lei stessa ama definirsi - dal 1978, di parlarmi del pagliaccio e del suo linguaggio. Rosa, che è di origini calabresi e ha vissuto a lungo a Parigi, conta tra i suoi maestri i grandi Philippe Gaulier e Jango Edwards, è attrice, drammaturga e regista e ha insegnato Improvvisazione e Drammaturgia dell’attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, all’ Accademia del Teatro Bellini di Napoli e attualmente alla QAcademy (ex AIAD) di Roma. E’ stata anche docente di Tecniche di Commedia dell’Arte in Italia, Francia, Spagna, Canada e Stati Uniti.
Rosa,
mi piacerebbe che tu ci parlassi del clown. E soprattutto del tuo clown.
Io
penso sempre che il Clown sia un meraviglioso idiota e che il suo lavoro è far
morir dal
ridere
gli spettatori: lo scrivo sempre in tutte le presentazioni dei miei corsi sul
clown.
Io non
sono un clown di professione, ma il mio clown lo conosco bene e sta sotto tutte
le cose
che
faccio: scrivere, dirigere, insegnare, recitare…
Nella
vita non sono persona facile: di origini calabre della zona sibaritica, non
posso mai
separarmi
dalle mie radici che affondano nella cultura tragica della mia gente.
Quando,
da piccola, facevo scherzi e giochi stupidi, mio padre mi rimproverava sempre
dicendo:
“Smettila di fare il pagliaccio!”, senza alcuna consapevolezza di indicarmi un
destino.
E’
stato sempre troppo pesante portarmi dentro e addosso tutta quella serietà che
mi veniva
imposta,
per questo – quando ho fatto ridere un pubblico di studenti di teatro per la
prima
volta –
quasi non mi riconoscevo: ma ho riconosciuto immediatamente quel destino.
Se non so
ridere io – ho pensato – posso far ridere gli altri!
Ridere
è una delle cose più belle che può accadere a un essere umano, quindi saper far
ridere
è dote di
quell’attore che lavora per la gioia del pubblico.
Per questo
ho deciso di diventare un clown prima e un’attrice poi.
In seguito
ho scoperto che i giochi e le improvvisazioni potevano essere “ripetute” e
quindi
sono
diventata un’autrice/drammaturga, di conseguenza una ricercatrice.
L’ho
scoperto insieme alla fortuna di incontrare un paio di “good friends”,
clownesse con le
quali
ho fatto e disfatto compagnie, fatto radio, cinema, televisione…
Infine
ho scoperto che sapevo e potevo insegnare come si fa il teatro, non solo quello
più
classico,
ma soprattutto il mio teatro, quello che non può fare a meno del clown.
E’
stato un percorso pieno di scoperte. Mentre nel mondo c’erano quelle
scientifiche e
tecnologiche,
riguardo all’umanità ce ne sono state altrettante, tipo quelle che magari
stanno
lì da
sempre e, proprio per questo, non vengono mai viste.
Una
importante è stata che ridere è un fenomeno universale e questo vuol dire che
tutti
possono
capire un Clown. Ecco perché ho potuto viaggiare pur non conoscendo molto bene
l’inglese!
Accanto
a questa grande qualità, il clown ne ha un’altra meravigliosa: è contento di
mostrare
quello
che fa, è come un bambino che fa vedere a papà e mamma il trucco che ha appena
imparato.
Tutti siamo stati bambini, tutti siamo stati divertenti, poi l’abbiamo
dimenticato. Il
clown
invece continua a ricordare…
Siamo
tutti dei clown: ci crediamo belli, intelligenti, forti, eppure abbiamo tutti
delle
debolezze,
dei lati ridicoli che, esprimendosi, fanno ridere. Il Clown non si vergogna e
non si
nasconde,
anzi si mostra perché, così facendo, il pubblico - ovvero mamma e papà - ride.
A
differenza degli altri personaggi dello spettacolo, il clown ha un contatto
diretto e
immediato
col pubblico: non può vivere che con e sotto lo sguardo degli altri.
Non si
può fare il clown davanti al pubblico, lo si gioca col pubblico.
Il
clown non è un personaggio, non esiste al di fuori dell’attore che lo gioca, è
l’attore stesso
che
gioca il gioco della verità: più è sé stesso, sorpreso in flagrante debolezza,
più è buffo.
Non
gioca un ruolo, ma lascia andare l’innocenza che è in lui e - quando fallisce
il proprio
numero
o mostra le difficoltà che subisce, permettendo allo spettatore di sentirsi
superiore
–
“svela la sua natura umana profonda che emoziona e fa ridere” (Philippe
Gaulier, che poi è il
mio
maestro) .
Quali
sono gli spazi ideali per il clown?
Il
teatro e la strada sono spazi ideali per un Clown, perché permettono alla
performance di
esistere
nel tempo reale, in un assoluto presente che è scambiato e condiviso da persone
vive
con
persone vive. Le condizioni sono quelle assolutamente necessarie: attore,
pubblico, luce, non c’è bisogno di nient’altro. Né scene, né costumi, né
oggetti…
Il
clown è un bravo “mimo”, con i suoi gesti e la sua voce può convincerti a
immaginare di
nuotare
sott’acqua, di incontrare alieni, di parlare con dio, di mangiare, di fare una
corsa in
moto o
di scappare dai vampiri… insomma praticamente tutto l’immaginabile…
Ma
anche il cinema ha rappresentato una bellissima casa per i clowns: Buster
Keaton, Charlie
Chaplin,
Stan Laurel e Oliver Hardy, ma anche Benigni e Totò ci hanno regalato – in modo
indelebile
– momenti meravigliosi di divertimento e incanto. In TV i Clown (o almeno
quelli che io ritengo tali) non li riconosco negli attori, quanto nelle persone
vere, riprese in tempo reale: le candid camera, gli scherzi anche crudeli, gli
incidenti di vario tipo, le reazioni di meraviglia autentica rispetto ad
accadimenti inaspettati…
Ci sono
rubriche ( per esempio di Striscia la
Notizia ) di incidenti che accadono alle persone
vere,
che mi fanno veramente ridere, perché mi accade quello che faccio accadere
quando
sono
clown.
Quando
assisto a un numero di clown – di un bravo attore o di una persona reale - mi
sento
superiore
a quello stupido che cade sbattendo il muso per terra. Quando quello scemo
stava
per
cadere, mi ero identificata con lui, ho provato la sua stessa paura o
disorientamento.
Dentro
di me si è scatenata molta tensione: quando il clown (attore o meno) cade,
quella
tensione
cala di botto: si tratta di una reazione biochimica del corpo umano che si
traduce in
uno
scarico immediato, repentino: è lì che sorge il riso.
E’ una
zona che un bravo attore conosce bene: è la stessa del grido, del pianto e
della
bestemmia.
Il
clown regala allo spettatore la certezza di essere molto più intelligente e
molto più in
gamba
di quel cretino spiattellato al suolo, una certezza che dà molto piacere, il
piacere di
sentirsi
migliori. Non è poco, no?
Di
quale cultura si nutre il tuo clown?
Di
tutto. Più la persona/attore è sensibile
al mondo, più le gags del suo Clown arrivano al cuore di tutti. Da Clown recitavo una poesia di Tonino Guerra
che era sicuramente un grande intellettuale, ma le sue parole, così semplici e
così vere, erano un ottimo testo per un clown.
Ma
attenzione! Psicologie o intellettualismi uccidono ogni spontaneità…
Il
pensiero intelligente è un buon amico del clown, ma non il pensiero psicologico
che è nemico
tanto
quanto la volontà: il clown non vuole mai niente, non lo pretende.
Il
clown raramente propone, in genere reagisce soltanto.
Cosa
puoi dirci a proposito del lessico del tuo clown?
Anche
per quanto riguarda la lingua e l’uso delle parole, il Clown è l’essere più
libero che io
conosca:
ama tutte le lingue e tutti i dialetti, i suoni, le note e le onomatopee e va
anche
oltre,
spesso creando dei personalissimi gramelot . E’ il suo modo di farsi capire
ovunque e da chiunque…
Ama
inventare le parole e i modi di dirle, a volte si spaccia per poeta e spesso lo
è veramente!
Ed è il
suo trucco per non farsi mai censurare!
Quali
parole predilige il linguaggio del tuo clown? Perché?
Il mio
Clown è molto cambiato nel tempo, così come è cambiata la persona/Rosa.
E così
il mio linguaggio teatrale che si è arricchito e ripulito, via via che mi nutro
di cultura, si
è
liberato con la maturità delle esperienze della vita: gli amori, i lutti, le
paure, i successi, le
disperazioni…
L’insegnamento
mi ha felicemente costretta a inventare continuamente parole nuove per
comunicare
meglio. E’ insegnando che ho scoperto il grande potere delle immagini.
Quando,
nel ’77 urlavo nelle piazze “Fantasia al potere”, ero consapevole solo in
minima parte
di quel
famoso destino di cui sopra.
Quando
il mio Clown riesce a far ridere saltando pericolosamente dai significati allo
sberleffo, quando riesce a non perdere l’equilibrio e precipitare nel patetico,
quando fa acrobazie tra la merda e le stelle… io sono felice…
Quando
i miei attori comprendono come fare per poter volare nell’immensità dell’essere
umano
e poi
atterrare o cadere senza farsi male… io sono felice!
Che
relazione c’è tra il clown e la poesia?
E’ la
stessa relazione che esiste tra me e dio. Non ci credo, ma lo sento.
Dio lo sento
nei momenti perfetti che offre il palcoscenico – in prova, a volte – e il
deserto del
Sahara
– ci sono stata molte volte. Lo sento in quegli attimi completi - e infiniti
nello stesso
tempo –
che offrono i bambini, la risata di un vecchio, il colore di una nuvola, la
miseria di un
barbone,
il lamento di un malato che muore, l’imprevedibilità di un gatto…
Sento
la poesia in uno sguardo innamorato, nella scritta su una lapide e la sento
nella vergogna,
nella
rabbia, nel dolore, in un artificio teatrale, in una storia inventata, nella
crudeltà della
vita e
anche in un’ immagine che si crea dentro di me improvvisamente, come un
miracolo.
Lampadine
o stelle ? Alla poesia e al clown non importa: basta che dio faccia luce…
Dietro
a uno spettacolo c’è solo improvvisazione e oralità o esiste un momento di
scrittura?
Per il
clown il gioco è all’origine di tutto: il piacere e il desiderio, non già di
piacere, ma del
piacere
di giocare: per questo ha bisogno di tenerlo sempre vivo questo piacere,
cercando
di
amplificarlo in ogni momento ed è per questo che ha bisogno della complicità
col proprio
partner
e col pubblico.
Improvvisare
- saperlo fare – vuol dire vivere – poco magari, ma intensamente - con
freschezza,
apertura e generosità e – contemporaneamente – convivere con il rischio di
fallire.
L’attore/clown
si obbliga a seguire lo stato d’animo e le sensazioni del momento stesso in cui
avviene
l’azione, per rinnovare continuamente la capacità di reazione e lo stato di
stupore che
l’inaspettato
causa necessariamente: ogni incidente di percorso, ogni reazione del compagno
di
gioco o
del pubblico stesso è stimolo di nuova creazione e di rinnovato piacere del
gioco.
Il
clown è sempre in stato di reazione: al significato delle parole, al pubblico,
ai compagni di
scena,
anche e a sé stesso. Non dice, solo risponde…
Quindi
l’improvvisazione è l’ideale per un clown, ma questo non impedisce di “poter ripetere”
ovvero
“re-citare”: grandi Clowns che fanno parte della generazione dei miei maestri –
alcuni
non ci
sono già più (Dimitri, per esempio) – spesso avevano un numero solo con cui
andavano in scena, sempre! Ovvero – nel caso di Dimitri – per più di 40 anni!
Poi ha
fondato una Scuola di Teatro, unica in Svizzera, che insegna agli attori, ai
registi e agli
autori
a essere originali, come quella di Lecoq a Parigi: una scuola di Creazione, non
solo di
recitazione.
Sono da
poco tornata a vedere i miei da sempre paralleli e amici “Donati&Olesen”,
un duo che mi fa ridere come una bambina con numeri che vedo eseguire da
Giorgio e Jacob fin da loro esordio nel 1982…
Slava
ha addirittura creato uno show che ora non interpreta più, ma continua a
mietere successi da anni in tutto il mondo, interpretato esattamente come da
scrittura scenica originale da altri clowns: non smetterò mai di tornare a
vederlo, perché i vari clowns che si alternano nelle varie riprese, a volte
sono bravi, a volte no, a volte apportano qualcosa di personale, ma sempre
stando esattamente in partitura.
Leo
Bassi – grande provocatore - fa da trent’anni gli stessi numeri, ma li collega
tra loro con sempre nuove riflessioni, politiche e umane. E poi c’è Jango
Edwards che ne ha 381, di numeri!
Per
tornare alla scrittura (vivente o ripetibile) – se devo pensare a un numero di
clown per
me o
per uno dei miei attori – scelgo di partire da un “gioco”, uno solo, rischiando
di portarlo
in
scena senza sapere dove mi porterà, senza conoscerne il finale: a volte il
finale arriva e ti prendi l’applauso, a volte non arriva e il gioco continua,
si trasforma, passa e va: dove va? Non si sa...
Per
gioco intendo proprio un gioco: essere un idraulico, svitare una lampadina,
salutare… A
volte è
solo una musica, o una parola… un suono… avere paura o essere innamorato…
Giochi:
azioni, immagini o stati d’animo lo possono essere.
La
creatività del Clown, la sua capacità di reagire in tempo reale è una risposta
alla vita, uno
stupore
di fronte alle sue infinite variazioni.
Davide Cortese
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