Vacancy. I sogni segreti di Ben Stiller
A cavallo di un americanissimo “vorrei
ma non posso”, anzi non è “mio”
Di Sarah
Panatta
“Ground
control to Major Tom…”. Si
entra e si esce dalle stesse porte, ispezionando ammirati le stelle da una
capsula lontana. Major Tom vive sulla soglia, ferisce lo spazio-tempo, lo spazio
del suo tempo e cavalca la barriera della paura. È la sua “stranezza”. Il volo
gravitazionale intorno alla cecità coatta del mondo. Non importa dove sia
arrivato, ma che lo abbia fatto.
Parafrasando ancora l’eversione
ironicamente poetica del giovane Bowie – al di là della sua intenerita e allora
quanto mai tempistica e perfino cinefila “space oddity” – quando decidiamo di
vivere i sogni che tappezzano la nostra “vita segreta”? Che alimentano il nostro
Ego vero e inguaribile, quasi sconosciuto, perché inascoltato, avvizzito sotto
cumuli di reticenze, convenienze, colpe deviate.
Può un editor che viaggia verso il
licenziamento superare la modernizzazione ferale della sua rivista, il torpore
del proprio ceto, entrare vittorioso nel cosmo 3.0 con un’identità integra e
nobilitata e scrivere da solo il proprio giorno attraversando il planisfero
come pedina impazzita, da ghiacci a rocce, per finire dietro l’uscio della donna
che già aveva “trovato”? Nonostante il titolo originale accattivante (dal
racconto letterario del scritto da James Thurber nel 1939) e la complicazione
tautologica del titolo italiano, I sogni
segreti di Walter Mitty non risponderà alle domande succitate. Perché anche
Ben Stiller, attore protagonista e regista (ripescato e sostituito al prescelto
gargantuesco Jim Carrey, dopo quasi venti anni di tira e molla delle major
produttive, e di numerosi rimaneggiamenti sullo script iniziale) resta a
galleggiare in orbita, e non può “farci niente”. Scientificamente educato all’intrusione
della spettacolarità artificiale nella visione intima dell’autore/fruitore e
sostenuto da un budget da cine-panettone hollywoodiano, Stiller ruba troppo
margine alla sua demenzialità sana e deliziosa, dandosi anche qui al polpettone
da botteghino facile.
Scenari HD da desktop, fotografia tronfia,
laccatissima dal siderale nitore del digitale, barocchismi di una regia che
diventa puro surplus. All’estro naif e sardonico del piccolo grande nerd,
Stiller/Mitty è/ha lasciato pochissimo agio, tranne i sipari da parodia
fumettistica e il lampeggiante sguardo sospeso di un uomo/autore/attore che non
è ancora completo. Carne allenata dell’uomo medio americano che evade
continuamente dal suo steccato tarlato pur volontariamente inchiodato all’idea
rassicurante e orgogliosa dello stesso steccato. Stiller si avvinghia al ruolo
di regista-interprete debordato e asfissiato, abbandonando la brillante
possibilità di una scrittura che saprebbe scarnificare il contemporaneo con
foga e grazia. Stiller conosce l’uomo-torta pasciuto da affetti disfunzionali,
l’uomo-grafico da statistica pre elettorale, l’uomo-topo da auto familiare nel
cortile ben potato. Eppure non si lancia mai dalla navicella, non sgrana gli
occhi sull’ipocrisia di sogni imperialistici nazionali e sulle miserie
titubanti dell’uomo-medio reale. Abbraccia l’ennesima storia retrospettiva, all
american, zuccherosa e adatta ai toni retoricamente imbalsamati di un nuovo
(mal imitato) Capra.
“Can you hear me Major Tom?”
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