domenica 1 settembre 2013

(esca)Video: microreportage La villa di Nerone


(esca)Video- Iolanda La Carrubba "la metro de Paris"






 
Regia: Iolanda La Carrubba
Anno di produzione: 2012
Durata: 9' 55''
Tipologia: documentario
Genere: arte/sociale/storico
Paese: Italia
Distributore: n.d.
Data di uscita:
Formato di ripresa: HDV
Formato di proiezione: DV, colore e bianco/nero
Titolo originale: La Metro de Paris

Sinossi: Parigi capitale della Francia, Città di fascino storico di amori ed arte, capitale della joie de vivre.
Nel 1900 durante l’esposizione universale il 19 Luglio senza nessun festeggiamento, aprì la sua prima linea della metropolitana inizialmente chiamata chemin de fer métropolitain – poi semplificata in métropolitain, ed infine appellata con il vezzeggiativo di Metrò ancora oggi in uso.
La rete della metropolitana si estese rapidamente fino agli inizi della guerra mondiale del ’15-’18 e nel 1920, con tenacia e soprattutto per il bene dello sviluppo topografico sotterraneo della città, il primo gruppo delle stazioni della metrò venne completato, consentendo così ai cittadini di usufruire dell’innovativo mezzo di trasporto giornaliero che mai aveva avuto precedenti.
L’unico esemplare della prima generazione di stazioni ferroviarie mai costruite, appartiene proprio all’immensa ragnatela del Metrò de Paris: la “Gare de l’est”. Il fascino di questa particolare stazione, si genera grazie al connubio architettonico ed artistico, infatti qui vi è rappresentata la partenza dei soldati al fronte nell’agosto del 1914, in un’opera pittorica di 60 metri quadri realizzata dall’artista newyorkese Halbert Herter, il dipinto poi venne esposto nel 1926 in memoria del figlio caduto in guerra.
Per svariate ragioni alcune delle fermate non vennero terminate o non furono mai aperte al pubblico, acquisendo così il curioso nomignolo di “stazioni fantasma”. Porte de Lilias de cinema è una delle più celebri essendo ormai utilizzata esclusivamente per delle location cinematografiche, infatti alcune delle pellicole più note hanno avuto i natali proprio in questa stazione... ma il vero protagonista del viaggio nei vagoni metropolitani, i quali hanno trasformato radicalmente il loro design nel trascorrere del tempo, è quel pezzetto di carta che per lo più dopo essere stato utilizzato finisce per essere calpestato dall’inarrestabile corsa dei parigini.
Il biglietto “Billet o Tiquette” era suddiviso in tre categorie: I classe 25 centesimi di franco, II classe 15 centesimi di franco, andata e ritorno 20 centesimi di franco; ad oggi molte sono le tariffe del biglietto per usufruire di questo capolavoro dell’ingegneria dei trasporti pubblici, infatti anche la neotecnologia giunge fino a fondersi nella carta del Tiquette sostituendo la barra magnetica con un microchip (con tutti i pro o i contro che questo comporta).
La particolarità della metropolitana di Parigi oltre alle 300 stazioni circa, è il rapido servizio che offre grazie alla sua vicinanza di una fermata all’altra. In questo mondo sotterraneo si gode di un efficiente mezzo di trasporto che garantisce oltre ad un impeccabile puntualità, tra l’arrivo e la partenza, anche un impensabile ordine del ‘piccolo buon viaggio’ per così definire l’odierno andirivieni del tran-tran quotidiano.
In questo impensabile, straordinario luogo di incontro, si percepisce la plausibile novità dell’evoluzione umana, interscambi culturali di multi-etnie che con i loro gesti d’abitudine rituale incuriosiscono lo sguardo dell’estraneo instaurando, istantaneamente, un contatto subconscio che genera così un richiamo ancestrale o addirittura iperspirituale tra le differenze tradizionali degli stili di vita come se fosse il richiamo scaturito dal tam-tam tribale.
Sorrisi, pianti, bambini e caramelle, qui si esiste senza aver necessità di spiegazione, senza nessun tipo di incertezza, qui si esiste e si esiste per come si è e c’è chi mangia un’insalata fredda di pasta, molti leggono giornali, riviste, libri dalle copertine variopinte, alcuni addirittura ballano, altri navigano in internet con i cellulari che sembrano essere stati trafugati dal set di un film fantascientifico di Spielberg. Proprio qui in questo poliedrico centro della civiltà, ogni esistenza dal fotone che attraversa i lunghi corridoi, al venditore abusivo di di biglietti, si fonde in un perfetto equilibrio cromatico come potrebbe avvenire all’interno di una delle arterie principali del corpo umano.
La metro (sarebbe meglio francesizzare il termine), Le Metrò, in funzione tutti i giorni dalle sei del mattino a l’una di notte circa, custodisce la storia della Francia; molte sono le fermate che portano il nome di: battaglie vittoriose “Solferino”, monumenti “Palace Royal museè du Louvre”, personaggi storici “Gambetta”, scrittori “Alexandre Dumas”, scultori “Pigalle”, scienziati “Pasteur”, ovviamente senza dimenticare l’ingegnere “Fulgence Bienvenue” il padre, per così dire, della metropolitana di Parigi.
Altre stazioni, invece, ammaliano i loro visitatori per la caratteristica di presentarsi come: una piccola frazione del museo del Louvre “Louvre Rivoli”, una pagina di un pregiato libro colmo degli autografi delle celebrità del quartiere latino “Cluny-La Sorbonne” e chi invece si contraddistingue per le pareti dove viene presentato il testo della dichiarazione dei diritti “Concorde”.
Nel vasto labirinto concentrato nel sottosuolo di Parigi, è possibile perfino trascorrere interi decenni nella scoperta di nuovi preziosi dettagli, nuove storie, nuove strade che conducono verso una città senza fine.
Uscendo da questo dedalico percorso, si viene colti dall’irruente temperamento della città, il vento che si incanala nei passaggi scivolando sui pochi grandini che riconducono verso i tetti di Parigi, invita ad una festa interminabile, alla ricerca del bel vivere, dell’inebriante fragranza di una città inarrestabile e la sua metropolitana, il cordone ombelicale, appare in scena patrocinata da un’immensa M rossa, ed il fascino della madre dello spostamento, si dichiara grazie agli ingressi Art-Nouveau fatti di ferro danzante che assume la forma di tulipani e libellule e queste fiabesche forme arrecano ai sensi l’indescrivibile emozione del perpetuo déjà-vu che solo Parigi riesce a spiegare.
 
http://www.cinemaitaliano.info/lametrodeparis

(esca)Video: Museo del cinema



(esca)Video: Anna Laura Longo


(esca)Video: book trailer Massimo Pacetti



Booktrailer con Massimo Pacetti
ideato e realizzato da Iolanda La Carrubba

(esca)Video- Daniele Tammurello parte 2


(esca)Video - Daniele Tammurello parte1


(esca)Musica- Poesi-canzone PIAZZE



Poesia di Giovanni Minio
musica ed interpretazione Amedeo Morrone

(esca)Recensione- Fernando Della Posta

Viaggio fotografico di Fernando Della Posta
di Iolanda La Carrubba




L’interpretazione del dato oggettivo nei lavori fotografici di Fernando Della Posta, valica gli ostacoli del banale per approdare nella sincerità dello scatto. Si avverte una profonda interrogazione tra il punto focale e il moto impresso sulla pellicola, strettamente legato alla complessa struttura dell’angolo di campo.
Questi “frame” posseggono una forza cinematografica che ripercorre con istintiva intelligenza, la visione registica hitchcockiana, con momenti che culminano nell’oniricità felliniana. La forza cinetica di queste immagini, sprigiona pura energia nel contesto visivo, i palazzi non sono solo architetture contenenti vite, ma vite stesse che si stagliano (in)contro cieli terzi, le persone abitano le prospettive, senza necessità di mettersi in posa per lo scatto, ma lo vivono danzandoci.

 
Fernando Della Posta descrive e interpreta il mondo attraverso l’obiettivo, come se lo stesse attraversando in treno, lo riconoscesse superando la velocità vorace di quelle sequenze in viaggio, che scorrono liete dietro il finestrino e lui possedesse la capacità di fermare quel frammetto di vita, come se fosse il ricordo di un sogno, un sogno felice fatto in treno.
Qui il movimento si fa vero protagonista, mantenendo la costanza dello sguardo anche là dove il life-stile prende il sopravvento sulla razionalità della stasi, infatti dove c’è stasi, c’è concentr-Azione che riesce a catturare la libertà caratterizzata dalle situazioni. Penso alle manifestazioni in piazza, a mezzi di locomozione che trascinano fasci di colore, fin quando d’improvviso cala il silenzio, come fosse l’apparente calma della sera. Il colore è presente anche dove vive quieto nel bianco e nero diretto con acume, questa è una fotografia in grado di custodire esperienze, forme e stili provenienti anche dalla beat generation.

 

Anche se spontanea la visione in questo “oggi” fotografato da Della Posta, l’insieme è la vera chiave di lettura, l’intraprendenza del fotografo sta proprio nella continua esplorazione dei sensi, delle emozioni, qui infatti vige la necessità di appartenere ai fatti riuscendo tuttavia ad estraniarsi, dando così la percezione emotiva del surrealismo.

(esca)Recensione: Enzo Minarelli-POETRY-MUSIC-MACHINE


LA SACRA TRINITÀ, POETRY-MUSIC-MACHINE

 

 

di Enzo Minarelli



Ascoltando in queste giornate agostane invero un po’ troppo roventi, [da sempre il periodo che io dedico all’ascolto di opere accumulate nei mesi precedenti], il lavoro di Marco Palladini, pensavo che fin dal titolo, l’autore mette le carte in tavole, gioca a carte scoperte, mette insomma le cose in chiaro: c’è Lei, la Poesia qui definita in anglosassone Poetry [poteva restare l’italico vocabolo, non cambiava nulla], poi viene Music e infine buon ultimo, Machine.

L’ordine mi pare quello giusto, prima viene Lei, il nostro autore ha, come si suol dire, il cuore gonfio, deve togliersi parecchi sassolini dalle scarpe, e li snocciola con una insolita rabbia fino in fondo, correndo tutti i rischi del caso. La Poesia viene prima, però lo stile scelto per allentare la sua tensione esistenziale, è asciutto, pochi fronzoli, poche concessioni al superfluo, mira dritto a quello che deve dire e lo dice in fretta, quasi di corsa.

Poi la Musica, un gradino più sotto, correttamente ricopre come io amo dire [senza voler riprendere un noto punto del mio Manifesto della Polipoesia 1987, Valencia], un ruolo deuteragonista, mai invadente, ritmica al punto giusto, quasi un fruscio di sottofondo, una easy-music, se mi si passa il termine, che, a ragione, lascia libero spazio al protagonismo della voce, alla oralità palladiniana.

Non a caso ho impiegato l’aggettivazione palladiniana, perché se ha un merito la sua voce, è proprio quello di non irrigidirsi su una monotona tonalità, come invece purtroppo succede in molti casi quando spunta la musica a supporto del testo letto, infatti, le sue non sono letture nel senso classico, ma vere performance dove, come direbbe il caro e compianto Edoardo Sanguineti, la poesia è sempre la soluzione ad un problema, e il Nostro si pone di volta in volta il problema del come formulare il testo, operando variazioni sia timbriche che tonali, in questo aiutato alla perfezione dal terzo elemento la Machine, ovvero l’hardware, il computer, la dotazione informatica; sapientemente li sfrutta attraverso shape predisposti, anche ricorrendo a filtri modulari che per forza galvanizzano la sua voce, la impregnano di quella vis elettronica che discendeva una volta dal sistema analogico ed ora da quello digitale.

 

Se a qualcuno di voi capita di avere tra le mani questo libretto con CD accluso, consiglierei di ascoltare subito la performance orale, senza leggere il testo che ridurrebbe di molto l’effetto-sorpresa, naturalmente guai a chi usa la scrittura poetica come fosse un libretto per l’opera. Non solo, seguite il mio consiglio, non iniziate la sessione di ascolto dalla n. 1, un po’ come per il grande poema di Edgar Allan Poe [Il Corvo], si inizia dalla quartultima stanza che è quella che il poeta di Richmond ha scritto per prima, oppure come per quell’immenso ed insuperato capolavoro Rayuela, Julio Cortázar indicava una precisa sequenza di lettura che non corrispondeva al solito schema progressivo, qui capita la stessa cosa: io suggerisco di iniziare dalla numero 8 perché qui sentite subito il corpo-voce [se preferite la voce-corpo] del poeta, sentite palpabile l’anima orale, lo stridore nitido della performance senza interferenza alcuna, come guardare le stelle cadenti nella notte di San Lorenzo {il mio compleanno!} stesi lungo un campo o su un colle, lontano dalla artificiosità delle luci urbane. Poi andrei alla  numero 6 perché rende bene il solco che tutto il CD seguirà, appare la musica come detto, ed è ovvio l’omaggio alla Beat Generation, proprio Kerouac ha utilizzato il jazz come accompagnamento, lo stesso Ginsberg durante quegli iperaffollati reading al Cellar di San Francisco nei primissimi anni Cinquanta. Va da sé ammettere che anche il Nostro si inserisce con piglio autorevole in questa tradizione che già annovera, in suolo italico, illustri precedenti vedi le coppie Balestrini-Cinque, Voce-Fresu, oppure, molto più modestamente, da citare anche la collaborazione di chi scrive con Ares Tavolazzi, il bassista degli Area. Poi proseguirei con la numero 4 che richiama proprio Charlie Parker, il nume musicista dei Beats, poi la 3 e la 2 che hanno un forte impatto comunicativo, la voce assume un’impennata autorale, quasi da tribuno. Dopo l’ascolto della 2, potete procedere liberi, facendo però attenzione a terminare assolutamente non con la 14 ma con la 10. Il pezzo Decollare…Decollarsi è una vera perla nell’insieme del CD, sicuro risente della mano di Luca Salvadori che ha gestito non la musica, ma la musicalità, in maniera intelligente facendo risaltare ancor più la robusta oralità, questo pezzo è un breve inno a Sua Maestà la Ripetizione che come direbbe un filosofo francese [Gilles Deleuze] è sempre “simbolica nella sua essenza”, e qui occorre davvero, scollarsi, scrollarsi di dosso tutta la zavorra asfissiante della mediocrazia (neologismo coniato da Dick Higgins), per tornare ad auscultare la purezza dei suoni, delle parole e perché no anche dei rumori [R. Murray Schafer docet!].

 

 

agosto 2013, Pianura Padana

Vacancy-Domenico Donatone "mostra al castello di Otranto"


De Chirico e il Salento. Una mostra al castello aragonese di Otranto.

di Domenico Donatone
 
 
 

Tra i luoghi d’Italia da visitare il Salento è sicuramente ai primi posti. Fatta eccezione per le città d’arte che sono mete a se stenti, protagoniste assolute della storia, come Roma, Milano, Venezia, Torino, Firenze, Napoli, Palermo, per cui visitarle richiede un’attenzione maggiore rispetto alla stessa distensione del viaggio, si può scegliere di visitare luoghi più adatti alla propria indole. Per cui visti i gioielli, toccato con mano gli ori, ci si può dedicare a un tipo di scoperta meno impegnativa e più distesa, meno vincolante a qualcosa che in Italia funziona benissimo: la scoperta di luoghi che possiedono un’entità plurima di bellezza, inversamente proporzionata a quella delle grandi città d’arte che sono un unicum del bello. Lontano dai centri urbani affollati e occupati da un turismo invadente, una ragione in più per allontanarsi dal centro per andare in periferia è insita nella scoperta di una condizione di integrità e d’incanto. La bellezza è preservata da una controllata frequentazione, da una moderazione della stessa scoperta. In questo modo molte località d’Italia sopravvivono e sono accessibili grazie ai pochi che la vivono. Luoghi che si possono visitare anche se non si dispone di molto denaro, grazie alla possibilità di diverse soluzioni itineranti. Certo anche vedere le cose, conoscerle, ha un costo. Occorre per la bellezza, così come per circondarsi del piacere di alcune belle donne, un quantitativo specifico di danaro senza il quale non si può ottenere nulla, né piacere e né scoperta, e chi non ha denaro non ha niente! È triste testimoniarlo, ma sopperire alla mancanza di denaro è una delle cose più drammatiche che possa accadere ad una persona. Accertato che conoscere Venezia significa avere la possibilità economica di recarsi a Venezia, rimane la possibilità di conoscere luoghi e paesi a torto ritenuti marginali, che hanno il fascino di non essere esigenti con il visitatore. Il Salento è una terra che mette chi la visita nella condizione di immergersi subito nella storia e nella realtà che le sono proprie. A questo punto non dirò dei luoghi che ho visitato come meraviglia di un’Italia che scompare anche sotto questo profilo ogni giorno di più, ma dirò della necessità di trovare ovunque cultura, mostre, libri, quadri, incontri e lezioni impreviste. Un filo conduttore del sapere che ha bisogno di conferme. Il connubio meglio riuscito sotto questo profilo è sicuramente la mostra allestita nelle stanze del castello aragonese della città di Otranto, dal titolo De Chirico. Il mistero e la poesia (dal 8 giugno al 29 settembre 2013). L’esposizione monografica a cura di Franco Calarata illustra il percorso dell’opera di Giorgio de Chirico all’insegna della Metafisica, intesa dal maestro come caratteristica dei soggetti (teste anonime, manichini, statue greche, templi classici, treni in lontananza, piazze deserte ed archi vuoti), che scorre lungo le diverse fasi stilistiche del suo lavoro. Decisamente folgorante sul piano della sintesi semantica è il tema Metafisica al sud, all’interno della rassegna collaterale della mostra, dal titolo Enigma di un pomeriggio d’estate. La rassegna degli eventi offre la possibilità di compiere inconsuete esplorazioni nel territorio pugliese, attraverso la visione pittorica dell’artista padre della metafisica. Il video, realizzato da Chiara Idrusa Scimieri, Visioni mediterranee, (produzione Orione s.r.l.), accresce di contenuti la mostra, in sostanza accademica e formale, e alimenta una ricerca ulteriore del senso moderno della metafisica con una sequenza ben ordinata di immagini della Puglia, delle sue città e delle sue coste, che riflettono la filosofia del pittore Giorgio de Chirico. Il docu-film della Scimieri ha il merito di aggiungere atmosfere oniriche e misteriche al già rigoroso ordine semantico della metafisica. Atmosfere che cavalcano in senso ludico e metamorfico quale può essere oggi il significato della Magna Grecia. Se non solo il Sud, soprattutto il Sud, nell’intersezione di riti e figurazioni artistico-religiose, rappresenta la metafisica come ragione di un sentimento non solo esterno ma interno alla storia narrata in senso storiografico e proporzionale all’antropologia culturale. Un pensiero antico che gioca a pensarsi in avanguardia.
 
 
 
Se ardimentoso ed azzardato può sembrare l’accostamento della pittura metafisica all’arte barocca e rococò di molte chiese di Lecce e di Gallipoli, il punto di soluzione tra l’architettura classica e la pittura metafisica di de Chirico si trova a Santa Maria di Leuca, nel bellissimo piazzale antistante la cattedrale detta di Finibus terrae. Fine della terra. Inizio del mare. Punta estrema della Puglia e parte terminale del Salento. Lì, sotto gli archi moderatamente alti, non imponenti e quasi familiari, a struttura geometrica rigida circostante la piazza del faro, si può trovare quel connubio tra natura, arte e pittura proposto nella mostra di Otranto. Una soluzione doppiamente efficace sia sul piano figurativo che architettonico e degna del pensiero di de Chirico, secondo il quale «senza la riscoperta del passato, non è possibile la scoperta del presente». Principio che evidentemente è stato recepito e assimilato anche da artisti pugliesi contemporanei, che sono Antonio Giannini, Beppe Labianca, Oronzo Liuzzi e Vincenzo Mascoli, inseriti nella struttura filologica della mostra di Otranto con il presupposto di ottenere una riflessione possibile sul tema della storia e della memoria attuale. Tutto il presente ci appare attraverso la sua storia, così come la bellezza ci appare nella forza, nell’enigma e nel mistero della sua stessa rappresentazione. A Otranto come a Gallipoli, a Ostuni come a Santa Maria di Leuca, la pittura di de Chirico unita al deserto delle strade e delle piazze pugliesi incontra nel visitatore un inaspettato motivo di festa e di sorpresa.

(esca)FotoRacconto: Sarah Panatta


Piazza Vittorio: human backstage

Testi e fotografie

di sarah panatta






Questa accavallata strategia di con-cavità angolari. Uniforme ritorno di linee di fuga.

Se fosse diventata, o sempre stata, a tua insaputa, il perimetro sicuro del tuo immoto scontento?

Figlio eterno, che abiti oscenamente assente e statisticamente plurimo questo giardino di pietra.
 

Figlio che languisce ai banchi di una Storia di sbucciate ecoplastiche,  tumulata nel calore asfissiato di spazzature oltre umane. Figlio del post che della postuma sua consapevolezza si beffa. Figlio che matura e snatura nell’eterna promessa di un bagliore troppo lontano. Figlio torna a te. Tu che vivi nella memoria dei tarli paterni e noleggi paternità irresponsabili, quando hai smesso di chiedere perché? Di desiderare come? Di guadare dove? Hai mai cominciato?

Non esci dal cono d’ombra, spazio di immaginazione mancato. Preferisci il sentiero già battuto, dove figli tuoi, tuoi fratelli, avanzano su infiniti binari, senza sfiorare l’imperfezione della propria sintesi. La possibilità non utilitaristica del contatto.

Contagio. Lo spauracchio della civiltà dei confini. Le malattie, le armi chimiche, gli sbarchi, i terrorismi nucleari, le mascherini, i gas, il fumo. Quanto fumo. È la materia dei confini.
Li trasforma in cicatriziale sgomento, poi in indifferente echeggiato lamento. Smettere di sentirlo e di sentirci è facile. Premere un tasto, sfogliare una pagina, linkarsi ad altro paesaggio, altro confine, altra cicatrice, altro. L’altro non è mai nostro. È il cittadino vicinissimo dell’altrove sperduto e fracassato a pochi centimetri di distanza.

Figlio, entri sempre uscendo da quei portici orizzontali. Attingendo sporadico ai cieli diversi, instabili, profetici di tante porte quanti sono i tuoi giorni. Ti nutri dell’ambiguità polverosa dei tuoi scambi, degli sguardi evitati, delle danze abbozzate falsate abbandonate.

Figlio della grande Migrazione. Hai deciso di esplorare oltre le colonne d’Ercole.
 
 
Eppure hai lasciato marcire il seme di ogni terra nuova. Hai prediletto conquiste proterve.
Negando il dialogo del tuo Credo hai tramandato spesso solo un monolite unitario in terra straniera. Figlio della Migr-azione. Hai smesso di gattonare per imparare il linguaggio di penetrazione che non puoi più rimandare?

 

(esca)Racconto - Chiara Mutti


L’Isola



 

E volto pagina, l’ultima pagina, chiudo il libro. Eppure me ne resto appesa, intrappolata ancora nella storia, come se un eco me  ne continuasse a mormorare nell’orecchio una canzone, una di quelle canzoni del passato che si fanno tristi nel ricordo. Le storie che vivono nei libri sono incanti, possono aprirti nuovi mondi o semplicemente schiudere un varco nel tuo muro, un muro fatto di omertà e silenzi. I miei silenzi li ho lasciati nelle grandi stanze di un convento dal pavimento rosso di mattoni, dove ogni suono si ripercuoteva nello spazio intorno, nei volti cerei snaturati dal dolore, nelle ferite aperte e sangue delle croci, negli occhi vitrei di madonne lacrimose dalle luci fioche. Passi nel vuoto del silenzio, passi di mille passi.

Anche quando ero libera di correre in giardino, unica amica di giochi di me stessa, anche allora io percepivo quel senso di lontananza dalla vita,  jolly caduto via dal mazzo delle carte, rompeva l’illusione e mi fermava il cuore. Fuggivo spaventata a ripararmi tra le mura, come se al chiuso quella “cosa” potesse smettere di scolorirmi il viso. Era la mia Isola da cui aspettavo navi in rotta verso il molo, ma la sua nave non attraccava mai. Mai.

Dei primi mesi di quegli anni ricordo solo qualche passo; scene, immagini così confuse e indecise nel tempo da non sapere più bene a chi appartengano: un grande chiostro, l’orto dei frati francescani, la grande sala, il fuoco nel camino. Mio fratello ed io: piccole ombre danzanti sul muro, sguardi persi oltre il muro. Il fuoco! Capace di dare la vita e di distruggere, distruggere, distruggere velocemente ogni cosa nella sua corsa guizzante e impazzita assorbendo la vita in un terribile crepitio; come se le cose inghiottite al suo passaggio lanciassero un ultimo grido disperato. Me ne portavo dietro il calore e un’aria trasognata, quando era l’ora di andare, perché anche se fratello, rimaneva sempre maschio e non ci era concesso di dormire nello stesso monastero. Me ne restava l’odore di fumo nei capelli ad onta di qualcosa, anch’essa biasimevole, che non si doveva fare. Iniziò allora un tempo dilatato in cui le azioni e le giornate potevano rovesciarsi le une nelle altre come le onde nel mare. In un convento la vita è scandita dal suono di una campanella, da orari fissi, regole, divieti, brevi ma esaltanti concessioni. Nella stagione buona, quando l’aria si addolciva, alle “ragazze del collegio” era permesso fare lunghe passeggiate, dopo la messa, alla domenica. Si andava per i prati, verso la collina di San Pietro in fila indiana, subendo i motti strafottenti dei ragazzi per cui la nostra somma, numeri di un pallottoliere, era invariabilmente sempre uguale a zero. Noi scalciavamo sassi e ridevamo desiderando un’altra storia, un cuore che finalmente si potesse usare. Nella gioia di quella libertà concessa c’era sempre il vento e un grande albero nel cielo tiepido di primavera. Le gemme soffici spuntavano dai rami neri a fiocchi, cariche di promesse;  c’era un richiamo in quell’aria, un odore dolce velato appena di malinconia. Promesse vane: la vita si ripeteva uguale, arresa a se stessa.

Poi sono arrivate le giornate fredde in cui l’oscurità mi sorprendeva quando alzavo lo sguardo dai libri alla finestra, nello studio dove passavamo tutti i pomeriggi dell’inverno. Era un’aula di scuola la mattina, e conservava quell’odore un po’ stantio di corpi, di banchi vecchi e vecchi libri. Il freddo  penetrava dentro le mie ossa, sotto la maglia di lana rigida e infeltrita per il troppo uso. Silenzio, brusio, silenzio. Sssssst! Il tempo sembrava non passare mai. Ma passava, le “sante feste” arrivavano a intervalli regolari come scherzi del destino, quando ritrovare i miei fratelli era una gioia che prevedeva il suo dolore di distacco, di arrivi, di partenze, di stazioni, di saluti svaniti dentro il fischio di un treno. Perduta in lontananza, oltre un bivio di binari, la nostra vita continuava, decisa a tavolino da qualche luminare della psiche. Per il nostro bene si enunciava che l’unione sarebbe stata disastrosa, quale fantasmagorico teorema! Meglio da soli, si, meglio soli a combattere i fantasmi della sorte. Pure quel mio mutismo ostinato, con cui mi difendevo dalla gente, non era sano; me ne facevano una colpa a volte, quando qualcuno se ne risentiva imbarazzato, certo non si doveva, certo. Me ne sarei dovuta vergognare!

Era il mondo degli adulti che si scontrava con il mio, la facciata ipocrita che non mi rassegnavo a rispettare. Gli adulti. Oh! Gente perbene. Mi ospitavano nelle loro case, carichi di cosiddetta carità cristiana ed io li ripagavo con una timidezza temeraria che, a quanto pare, appesantiva l’aria della festa. Mi sarebbe bastato che non facessero più caso a me, allora come un topolino spaventato forse sarei uscita dalla tana; piano piano, con circospezione, studiando gli angoli in cui sarei potuta andare a riparare. Mi sarebbe bastata la penombra, mentre loro mi puntavano una torcia, mi sarebbe bastata una parola. Una parola per sapere che potevo stare, semplicemente identica a me stessa, nell’angolo che mi ero scelta senza dovermi vergognare. 

Con le mie compagne la mia corda un po’ stonata vibrava un’altra melodia, quel mio essere diversa mi bastava. Costituiva anzi la mia forza con cui sfidavo il mondo, un mondo che chissà dov’era; fuori, da qualche parte, nel riflesso del sole, nel sorriso di un ragazzo che potrebbe essere stato il mio. Si…in un’altra dimensione, se fossi stata bella, se fossi stata bionda, se fossi stata. La mia vita nata fiume scendeva gorgogliando nel suo letto limaccioso, ora placido e tranquillo, ora pavoneggiandosi irruento, acquistando nella pendenza velocità e fragore, con la rabbia degli spruzzi cristallini a mescolarsi col biancore muto della spuma, vapore fatto aria. Parole di piuma e vento.

Se non fossi stata qui, su questa pagina, non sarei mai esistita. E ora che sono qui mi chiedo cosa sono stata: tanto di tutto e niente. Ma quello che sono ora lo devo alla mia Isola e a quella nave che non è passata; lo devo al freddo, al fuoco, al vento e ad una nuvola che si è fatta pioggia. Lo devo al fiume e al grande albero che mi ha cresciuta.

 

 

 Chiara Mutti

(esca)Poesia: Gabriella Ciandolo

Ascoltavo

Di Gabriella Ciandolo

 

Ascoltavo

lo sciabordio del mare,

ed i pensieri

si tinsero di spuma argentata.

L’oro del sole

mi accarezzava l’anima

e le tue dita,

com’ali di gabbiano,

scolorarono

sulla mia pelle,

cancellate dal vento.

Sono tornata,

sull’orma dei miei passi

ma il giorno era finito,

tra le sconvolte dune.

Volevo ancora dirti

che ti amo,

creando un ponte

tra gli spazi lontani,

e la musica mi ha sorpreso,

con l’arte della fuga

di Bach.

Ho abbracciato la notte,

nell’incerto sentiero,

respirando l’umido

delle bouganville,

cercando un rifugio di baci,

ma la casa era deserta.

-Solo echi lontani-

Tu non c’eri.

 

(esca) Poesia - Giusy Morrone


MARE

 
E mi fermo a guardare

il ritmo fluttuante del mare

che da sempre modula la sabbia, a volte

rabbia che frusta la riva e s’infrange

 si ritira

e seguo il ritorno dell’onda ormai spenta

lenta, tra sassi imperlati di sale

mi assale

riflette

lamelle diafane di luce opalina

profilo di luna

su fondo carbone

alla quale ululo addosso il mio amore.

 

 

11 Maggio 2009

 

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SEA

And I stop to look
fluctuating rhythm of the sea
that has always modulates the sand, sometimes
anger, lashing the shore and shattered
retires
and follow the wave back off now
slow, among stones beaded salt
I am assailed
reflects
translucent strips of light opal
Profile of the moon
the bottom of coal
which wail on him my love.

 
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MER



Et je m'arrête pour regarder
le rythme fluctuant de la mer
qui a toujours moduler le sable, parfois
colère, d'arrimage de la rive et brisé
prend sa retraite
et suivez les vagues au large de retour aujourd'hui
lent, parmi les pierres perlées sel
je suis assailli
reflète
bandes translucides de lumière d'opale
Profil de la lune
le bas de charbon
dont lamenteront sur ​​lui mon amour.
 
Giusy Morrone

(esca)Poesia: Tizian Marini


 

NEL TUO FIRMAMENTO

 

GELSOMINO STELLATO,

VERDE CIELO CHE PUNTEGGI

IL LUNGOROMA  A GIUGNO,

LUMINARIA DI SIEPE,

PROFUMO NOTTURNO…

QUAL’E’ IL POSTO DELLE COSE

QUAL’E’ IL POSTO DELLE STELLE

QUAL’E’IL MIO POSTO

NEL TUO FIRMAMENTO

IL RITMO GIUSTO DEL RESPIRO,

IL SONNO SAZIO,

LA DISTANZA FRA L’OCCHIO

E LE SUE CIGLIA…

CIELO CADUTO

NEL MIO CIELO,

NIDO SENZA VENTO,

MISURA D’ARMONIA..

BREVE GIOIA, PAURA.

VIENE L’ESTATE

E TU NON CI SARAI.


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IL MIO PESO NEL MONDO

 

 

IL PESO DI ME IN ME,

QUEL POCO CHE SCAVA

 
UN SENTIERO…

IL MIO PESO NEL MONDO.


MA HO CAMMINATO

FERMA IN UN PUNTO,

UN FAZZOLETTO

UNA MANO,

UN FOGLIO…

 COME PAROLA

SENZA VOCALI.

 
 Tiziana  Marini  -  2013

(esca)Poesia: Angela Campitelli

Inaspettato uomo

di Angela Campitelli
 
 
Accadde all’improvviso.

Senza avere il tempo di riflettere.

Fu un tuffo nel cuore.

Non fece rumore!

            Immerso in me

            diventasti mio!

            Solo la lontananza,

            rese la mia vita un tormento!

Il desiderio del tuo ritorno;

la lunga attesa.

L’amore, gioca

effetti paradossali!

            Sei mio, solo mio,

            e pur lontano,

            divenne pensiero costante

il tuo nome.

Legato, alle cose

di tutti i giorni.

Le parole.

Le carezze!

            Le promesse, giocate

            con maestria,

            mi rendevano unica,

            tra le altre! Amata!

Eppure, la realtà,

presentava il conto!

Il dolore, il tormento,

l’ossessione,

presero il ricordo dei sorrisi,

            dei tuoi ritorni. Inganno,

è la passione, che vede

l’amore dove c’è, assenza!

Un luogo desolato,

se ti penso.

Inspiegabile combinazione,

veder, ciò che non esiste!

            Provare, quel che non vorresti!

            Eppur, quando torni,

            la stessa gioia, e, quando parti,

            lo stesso dolore!

 

(esca)Poesia: Maurizio Stasi

Dedicata ad Inghe

Di Maurizio Stasi

 

Cara vecchia Inghe!

Mi ricordo ancora quando,

studenti, venivamo alla “Casaccia”!

Un vecchio caseggiato rossiccio,

dove avevi impiantato

“Er mejo prostibblolo de Roma”!

Portavi sempre quella tua giarrettiera

di trina bianca, con la coccarda d’oro!

Te l’aveva regalata quel tuo arciduca,

nel diciassette, quasi sessant’anni fa!

Nel diciassette avevi quindici anni,

due occhi di mare ed i capelli di grano maturo!

Eri giovane, bella, e già battevi

la difficile vita dei prostiboli di città!

Ma quanti uomini aiutasti

ad attraversare il Tagliamento dopo Caporetto!

Quanti ne salvasti dalla prigionia, dalla morte!

Quanti ne rimandasti, sani, alle loro case!

Mia vecchia Inghe!

Nel quarantadue, ad El Alamein, c’eri anche tu!

Furono le tue mille lire,

guadagnate in centinaia di notti d’amore,

a salvare la seconda sezione mitraglieri!

Comperasti mille litri di benzina dai tedeschi in fuga!

Furono poi le ore tristi del quarantatrè!

L’armistizio! La guerra di liberazione!

Quante notizie, sui movimenti dei tedeschi

fornisti ai Badogliani, alla Garibaldi!

Quante vite salvasti trasportando medicinali,

viveri, armi, munizioni!

Campagna del quindici-diciotto!

Campagna del 43-45, sul tuo petto,

ma soprattutto, tre generazioni di Italiani

allietati, da te e dalle tue donnine!

Perché, tu Inghe, non hai voluto

né onori né gloria, ed onori non hai avuto!

Sei rimasta sempre te stessa!

Un gran puttana! “La mejo de Roma” però!

Lo dicevi sempre tu!

Al tuo funerale oggi, non cè nessuno.

Né i giovani del novantanove,

né i partigiani della Garibaldi!

Anche i figli tuoi, che non uccidesti,

hanno scordato la tua bara!

Addio, vecchia grassa Inghe!

Io ti saluto come la migliore Donna,

che abbia mai conosciuto!

(esca)Poesia: Sarah Panatta


Sguardo di sale

di sarah panatta

 

Umori takeaway, desideri ipnotizzati, rituali

della fame frustrati, laccati, scaffalati

Aria salmastra inchiostra borghi, portici, strisce e pedoni

e sorprende il teatro dei burattini, rianimato

dall’artificio della sera in identiche porzioni

 

Consuntivo di supposizioni snob,

arma di pretese difensive e di invasioni controllate,

la pupilla

fissa perlustra indugia

trova moltiplica e non oltraggia l’ammucchiata del ‘corso’,

coreografia del presente imbalsamato,

senza testa sghembo torso

 

Mentre spaurita sventa rasenta i grumi coatti

dell’umanità che non ama guardarsi e si lascia solo guardare

Nera testarda raminga, testa il contatto

in pose impermeabili

 

Frutto di antico patto,

 

determinato

 

sfratto