venerdì 12 aprile 2013

News: Atletico Ghiacciaia al Teatro dell’Angelo


Atletico Ghiacciaia

di Iolanda La Carrubba

 

con Alessandro Benvenuti e Francesco Gabrielli

di Alessandro Benvenuti e Ugo Chiti

regia Alessandro Benvenuti

 

Aria, molta se ne respira in questo astratto luogo del ricordo. Il pensionato Gino di una ditta che neanche esiste più, l’infallibile SIP racconta e descrive, interpreta mentre aspetta di passare in quella dimensione dove tutto è riposo.

Risate accompagnano questa andatura nostalgica, sagace, matura ed a tratti brilla, proprio come il temperamento umoristico che contraddistingue il protagonista Alessandro Benvenuti.

Forte, fiero e rivoluzionario politicamente scorretto o eticamente stanco? Gino dice la verità, niente altro che la verità almeno dal suo punto di vista, e lo fa con amore, con virilità, con scrupolo e con qualche attimo di malinconia.

Prima che tutto abbia inizio, in scena le luci danzano, amoreggiano il blu e il giallo che s’incrociano e poi entra lui, alto fiero con la testa non tra le nuvole ma indossandole come capelli;  entra l’attore, il regista, entra il pensatore, l’uomo. Non dice nulla, guarda il pubblico e il pubblico lo guarda,  qualcuno da dietro le quinte lo aiuta ad indossare la giacca (lo stesso qualcuno che sarà suo compagno di viaggio attraverso epoche diverse) poi con passo ampio, si avvicina al leggio in plexiglass dove sopra inizia a riporre:

un bicchiere per amaro vuoto, un telefonino (il pubblico sorride), un accendino (controlla se funziona), pausa e quando sembra abbia sistemato tutto, proprio come il miglior mago illusionista, ecco apparire due pacchettini verdi, forse vere protagoniste dei ricordi le “nazionali senza”.

Affettuoso senza bisogno d’affetto,  il racconto procede ad incalzare attraverso i gesti colti dell’attore che d’un tratto si ferma, elegante porta una mano alla fronte ed esclama caldo:

“ è da quarant’anni che faccio le voci a teatro” ed invita a fare l’altro personaggio, a Francesco Gabrielli giovane, con riccioli neri, magro e con una forza interpretativa tutta da vedere.

Ed eccoli i due amici di due generazioni diverse attraversare con parole tutte fotografiche le cartoline di una storia a colori, l’Italia che fu, il mondo impazzito, l’attentato alle torri gemelle, la follia di massa, e tanto altro ancora.

Questo spettacolo entusiasmante si conclude con un monologo forte, che rivive il microcosmo rappresentato dalla squadra di calcio “l’amata Atletica Ghiacciaia” rievocando con fare attoriale di alto pregio, le qualità e i difetti degli undici che l’anno rappresentata.

 

In scena al Teatro dell’Angelo dal 4 al 21 aprile.

lunedì 1 aprile 2013

NEWS: Nettuno PhotoFestival

Anche nel 2013 Photogem S.r.l. sarà sponsor tecnico della mostra collettiva "PHOTOGEM EXHIBITION" che si terrà all'interno del PhotoFestival "Attraverso le Pieghe del Tempo" e sarà esposta dal 20 agosto al 1 settembre 2013 al cinquecentesco Forte Sangallo di Nettuno (Roma).





L'evento é organizzato e gestito dall'associazione "Occhio dell'Arte", in collaborazione con il Comune di Nettuno ed altri enti pubblici e privati.
Dal mondo fotografico nazionale ed internazionale interverranno molti autori noti al grande pubblico. Visitera' la rassegna perfino un superospite straniero!
Il sito dell'evento, attualmente in costruzione per assemblare tutte le grandi novita' di questa edizione, potrete trovarlo attivo nel prosieguo all'indirizzo:www.attraversolepieghedeltempo.com
Abbiamo anche aperto una pagina facebook:
http://www.facebook.com/pages/Photofestival-Attraverso-le-pieghe-del-Tempo/371188149604045
Per tutte le informazioni sulla presente iniziativa visita il seguente link:
http://www.occhiodellarte.org/show_event.php?event=44
Partecipa anche tu alle selezioni! Il bando puoi scaricarlo da qui'
http://www.occhiodellarte.org/documenti/238ff3b97f44782349fb060be74d1dcf.pdf
Saranno ammesse alla selezione opere fotografiche sia in bianco e nero che a colori, basta che rispettino il tema "Attraverso le pieghe del tempo".
Il termine ultimo per la presentazione delle opere é il 30 maggio 2013.
Le 35 migliori opere selezionate saranno stampate dal laboratorio Photogem su carta Baritata ILFORD Galerie Gold Fibre Silk montata su pannelli in Gatorfoam spessore 10 mm. e rimarranno di proprieta' dei partecipanti, ai quali verranno restituite a fine esposizione.
Sono previsti premi e buoni sconto per i vincitori.
La Photogem Exhibition 2012: http://www.youtube.com/watch?v=ptWOtz333LA

VACANCY: Spazio alla Parola


Spazio alla parola: un'osservazione sull'intervista
di Domenico Donatone
Rispondendo qualche giorno fa ad alcune domande per il Vox di Piero Ricca, la rubrica che il giornalista e blogger cura per il fattoquotidiano.it, ho avuto la sensazione di poter godere di uno strano sollievo: dire quello che penso. Liberarmi. Dire quello che si pensa sul serio è una cosa non difficile ma difficilissima. I vincoli ideologici, mediatici e culturali, rendono evidente che il pensiero è veicolato da binari precisi, che quello che ci appare come il nostro pensiero è il risultato di una mediazione continua che parcellizza il contenuto del discorso. Un po’ si pensa con la propria testa, ma per un’altra buona parte, abbastanza consistente, siamo pensati, riformuliamo il già detto come se fosse nostro. Non intendo dire che non ho risposto con sincerità, anzi, ho risposto anche con emozione, il che qualcosa vorrà pur dire quando si è davanti ad una telecamera, ma ho risposto avvertendo che in quel momento mi liberavo anche per imprigionarmi, forse, ulteriormente, e che la possibilità di dire “esisto anch’io” non è immune da sofferenza.Per questo l’oralità è qualcosa che accetto con qualche resistenza, non perché il pensiero non sia libero quando si esprime oralmente, ma perché è sottoposto allo scandalo di ascoltarsi, di udirsi sul serio, preferendo di gran lunga la scrittura perché è un atto controllato. In me la parola è ancora acerba mentre quando scrivo sono padrone del mio pensiero. In merito al significato dell’intervista, vorrei dire che essere interrogati è positivo perché ci scuote, consente di poterci riascoltare e capire qual è la sostanza reale che attiene al nostro pensiero. Tutto ciò non esclude che si voglia dire per essere protagonisti. Protagonisti di un taglio giornalistico che pur durando qualche minuto, per quell’unico spazio-tempo la vita è presente mentre torna a tacere una volta spenta la telecamera. Di certo la brevità dell’intervista non aiuta, anzi direi che è pericolosa, perché il dono della sintesi è un dono che hanno pochi, ma soprattutto perché scatena pulsioni remote eimprovvise, emozioni intense, fa precipitare una serie di pensieri che da tempo attendono di fuoriuscire, concetti che salgono dai polmoni alla gola fino ad esplodere con il rischio, nell’immediatezza dell’argomentazione,che si dica male quello che vorremmo ci venisse dato la possibilità di spiegare con più tempo. È dal tempo di relazione che le risposte sono contagiate, pronte a piegarsi al flusso sterminato delle idee che, piùche elevarsi con sicurezza, si rincorrono per cercarsi. In questo senso non vorrei essere nei panni di un neo eletto del M5s: l’intervista se non è fatta bene serve per massacrarti. In parte condivido che Grillo dica ai suoi di stare attenti, perché la parola vola, si contorce, e se non si è attoricapaci di stare sul palcoscenico dei media, rilasciare interviste è il modo migliore di farsi mortificare. Non c’entra l’autorevolezza del pensiero, c’entra che la parola ha bisogno di liberarsi dalle contratture. Dare voce alla società civile, la base su cui dovrebbe poggiare il consenso democratico, è attualmente la cosa più importante che un giornalista possa fare. Siccome la verità non è nei talk televisivi (tranne rarissime eccezioni) la verità, intesa non in senso filosofico, ma in senso antropologico, è in strada. Piaccia o non piaccia, quelli che rispondono come quelli che scappano, perché intimoriti dall’occhio meccanico della telecamera, siamo noi. Dare voce alla società significa anche rischiare. Rischiare soprattutto di capire che, nonostante ci sia tanta informazione, con l’apporto aggiuntivo e ormai strategico di internet, molti non sanno, molti ancora non hanno capito. L’informazione in questo periodo storico, per quanto difficile sia formarsi una propria idea e reagire ai vari bombardamenti etero-mediatici, è qualcosa di troppo importante. Vivendo anche a livello generazionale la macchina dell’informazione, ritengo che informarsi equivalgaa studiare. Bisogna stare lì ore a leggere, a chiarire le proprie idee, e chi rifiuta di informarsi sostanzialmente non vuol sapere che cosa il futuro ha in serbo. Fare informazione significa anche non dare niente per scontato, significa che quando poni una domanda, non è la domanda che conta al punto da appiattire la risposta, ma significa scatenare curiosità, poter indicare alle persone come muoversi, come agire, far crescere un interesse che dovrebbe essere in gran parte spontaneo. Fa bene stimolare le persone a parlare, a comunicare. In tanti anni ho scoperto, venendo dalla provincia, che tenersi tutto dentro ti fa diventare insopportabile. Non ha proprio senso vivere e non poter dire, non ha senso alcuno vivere e convincersi che è meglio tacere per non rovinarsi l’esistenza. Mi pare, dunque, che lo slancio che si possa dare alla parola determini convinzione, possa generare tormento quanto liberazione. Non credo, però, che tutto si possa dire e chi fa a gara per convincerci che si può dire tutto determina surrettiziamente uno sfogo pericoloso di cui non la censura è il vero nemico ma la persecuzione, giudiziaria quanto criminale e intellettuale. Pasolini lo aveva capito per primo con i suoi Comizi d’amore,favorendoun giornalismo dal basso in cui è protagonista il popolo più che le sue ragioni, è protagonista la “parola” più che il “pensiero”, ed io in parte corrispondo al desiderio di liberazione dall’angoscia,ma dall’altra mi convinco che parlare dinanzi una telecamera sia un atto che divora, un atto che mostra l’abisso culturale di chidesideraessere stoltamenteprotagonista. Scriveva Pasolini: «Altre mode, altri idoli, | la massa, non il popolo, la massa | decisa a farsi corrompere | al mondo ora si affaccia, | e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video | si abbevera, orda pura che irrompe | con pura avidità, informe | desiderio di partecipare alla festa. | E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. | Muta il senso delle parole: | chi finora ha parlato, con speranza, resta | indietro, invecchiato. | Non serve, per ringiovanire, questo | offeso angosciarsi, questo disperato | arrendersi!| Chi non parla, è dimenticato. ||»

VIDEO-CLIP: Bungaro


Titolo: Come la pioggia che si sposa al vento

Autore e Interprete: Bungaro

Produttore: Pierre Ruiz

Cast: Lorenzo Patanè Claudia Vismara

Regia: Mirko Vigliotti Giancarlo Vasta

Sceneggiatura: Mirko Vigliotti Nicoletta Osci Giancarlo Vasta

Aiuto Regia: Nicoletta Osci

D.O.P./1° Macchina: Darìo Paolini

2° Macchina/Ass. Operatore: Cristian Ruocco

2° Macchina: Antonello Masala

Ass. Operatore: Sacha Rossi

Aiuto Operatore/Data Manager: Valentino Nevolo

Scenografia: Raffaella Lucafone Nicoletta Guardiola

Costumi: Susanna Razzi

Trucco/Capelli: Flavia Transerici Giovanna Stasi

Montaggio: Giancarlo Vasta Mirko Vigliotti Nicoletta Osci

Visual FX: Giancarlo Vasta Mirko Vigliotti

Foto nella Camera Oscura: Paolo Soriani

VACANCY: DESIREE' MASSARONI


Come riuscire a capire se il proprio veterinario è capace?

Beh, di solito ce lo dice il proprio animale.




Come riuscire a capire se il proprio veterinario è capace? Beh, di solito ce lo dice il proprio animale.

Parlando di gatti se il veterinario è agitato lo sarà anche il nostro felino comunicandogli così nervosismo e tensione. Se, per effettuare qualsiasi attività sul nostro micio il veterinario chiede il sostegno di più mani, atte a bloccare l’animale e se, per far rientrare il proprio animale nella gabbietta il veterinario si improvvisa contorsionista (ho visto veterinari capovolgere le gabbie, inseguire l’animale, far rientrare forzatamente il gatto in posizione verticale!),  ricorrendo alle maniere forti o una manciata di croccantini nella gabbia…beh allora è un incompetente.

Se, brancolando nel buio, il veterinario non riesce ad effettuare una diagnosi somministrando quindi farmaci a gogò, e se, in questa somministrazione indifferenziata, non ricorda peraltro le dosi che aveva prescritto…beh allora diventa un individuo pericoloso per la salute, già minata, del nostro animale.

La facoltà di veterinaria è una delle più complesse indi diventare veterinario non è facile.

Eppure ci sono, come in tutte le professioni, veterinari incompetenti.

Un primo elemento, che può aiutarci a capire se il veterinario che ci hanno consigliato è bravo, è  riscontrabile già da come si presenta la sala d’attesa e lo studio.

Anche se si parla di animali non è detto che questi due luoghi debbano (possano) essere maleodoranti, bui e polverosi; gli animali sono amanti dei luoghi puliti e accoglienti.

In sala d’attesa soventi ci sono poster o stampe raffiguranti perlopiù cani e gatti e depliant. Ebbene anche la qualità contenutistica di questo materiale cartaceo, nonché il loro stato, può essere una spia della professionalità del veterinario, dello zelo nell’aggiornamento e nella cura di materiale informativo e/o illustrativo. Ricordo in un ottimo studio veterinario un suggestivo dipinto, molto grande luminoso, raffigurante tre gatti e una dovizia di depliant vari, suddivisi per argomenti: dalla cura dei propri animali alle leggi a loro tutela.

Entrando nello studio è interessante vedere come questo è disposto e strutturato: piccolo, ampio, buio, illuminato, arredato o spoglio, arieggiato o “tappato”, nuovo/ristrutturato o fatiscente. La luce, la luminosità, la sensazione di freschezza e pulizia, possono essere i primi segnali positivi indicanti un’attenzione e un rispetto del proprio mestiere e dei pazienti (nonché dei loro padroni).

E’ importante notare la presenza o meno di due tipologie di elementi: l’arredamento e la strumentazione scientifica. Spesso i buoni studi sono individuabili da un amore configurato, anche all’interno dello studio stesso, da dipinti, piccole statue, suppellettili, raffiguranti gli animali. Parallelamente la presenza di strumenti tecnologici quali una bilancia digitale, vari microscopi (diversi per potenza e grandezza), strumentazioni per effettuare radiografie e altre apparecchiature scientifiche indicano un investimento economico e una perizia scientifica del medico.

Si tratta comunque di elementi relativi per cui, per capire se il nostro veterinario è capace, sarà il proprio gatto a dircelo.

Se, durante la visita, il veterinario riesce perlopiù da solo a reggere il nostro micio il quale, magicamente, pare acquietarsi e tranquillizzarsi (tra le sue mani), possiamo tranquillizzarci anche noi. E’ utile osservare in questo caso come le pupille del gatto non siano troppo dilatate; se poi morde a mò di gioco il polso del veterinario (come fa con il padrone) allora significa che l’animale si sente, seppur esaminato, non minacciato. E’ abile quel veterinario che dunque ha un comportamento amorevole e allo stesso tempo fermo verso l’animale (né quindi bruscamente ingerente né eccessivamente remissivo ).

Se il veterinario effettua, in una semplice visita di controllo, un esame scrupoloso e completo dell’animale (orecchie, occhi, gengive, cuore-polmoni, stomaco, retto, temperatura corporea, peso, altezza, eventuale prelievo del sangue, eventuale individuazione del “dettaglio” come ad esempio un piccolo bozzo sulla schiena dovuto a una caduta del micio), è chiaro come si abbia di fronte un professionista, un medico competente e corretto.

Se per giunta il veterinario non introduce forzatamente il micio nella gabbia ma riesce a far entrare l’animale da solo….beh allora vuol dire che il proprio amico a quattro zampe si sente a suo agio.

Se, per qualsiasi problematica, il veterinario riesce a fornire una diagnosi più o meno tempestiva e comunque corretta, se non esagera nella somministrazione dei farmaci e se naturalmente osserviamo il nostro animale migliorare, allora è il veterinario giusto.

Peraltro i buoni veterinari non sono più costosi dei cattivi veterinari, anzi spesso quest’ultimi, paradossalmente, comportano una maggiore spesa e un danno irreparabile.

 Desireè Massaroni

VACANCY: No-etic experience


Ponendo come punto di partenza la riflessione su cosa sia “sfruttamento” nel tentare di rispondere al quesito, si aprirebbero dei macromondi costituiti principalmente su quel no-etic riflusso (in)cosciente derivato dalla locuzione latina:

 –Mors tua vita mea-

dalla quale si deduce quanto sia scarsa la comunicabilità come sia evidente l’assenza totale di empatia, nulla risulta essere  più truce nulla più disumano.

L’assenza di complicità etica, di bon ton sociale, di convivialità, deriva con tutta probabilità da quei periodi ostici costruitisi durante gli scontri bellici che hanno prodotto lo strappo drastico dalla fanciullezza, da quel disincantato angolo di beatitudine e spensieratezza. Così la psicanalisi entra a far parte, fragorosamente, di una società scettica, laica nel peggiore dei casi atea, vuota e svuotata dalla comprensione dell’altrove.

Paradossalmente si tenta di superare l’invalicabile costruendosi una gabbia morale inattaccabile, fatta principalmente di materiale di scarto come: insoddisfazioni personali, fobie, rabbia, paura.

Al riguardo fu esasperante ma entusiasmante le forte critiche mosse dal pensiero freudiano e da quello junghiano il quale sosteneva che la predisposizione dell'individuo è già un fattore nell' infanzia; è innata, non acquisita durante l'esistenza.  

Quindi in qualche modo, in quello letto da paziente autocritico, potrebbe evidenziarsi l’eventualità che nel DNA umano ci sia già di base, l’insofferenza emotiva sia che si posseggano  i requisiti per migliorarsi oppure no.

Nasce così una costruzione criptica attorno i concetti di un “dove” di un “chi” al quale spesso ci si rivolge in tono accusatorio avvertendo come denuncia di base l’insistente controversia tra bene e male tra odio e amore, lo yin e  lo yang.

Dunque anche se il suddetto esame, non può essere affrontato in termini di indagine, data l’assenza di una specifica qualifica in materia psicologica o parapsicologica, può comunque essere posta come punto di domanda contemplando il fondamento ipocondriaco appartenente in fase embrionale all’essere umano stesso, dovuto appunto alla costante presenza dell’auto lesione dell’auto inflizione psico-fisica che esaspera ogni facoltà e di progresso e di auto-rieducazione socio-culturale.

Robert A. Monroe, scrittore, regista ed in seguito ricercatore in campo parapsicologico, fu egli stesso esempio di come un corpo umano con una forte presenza coscienziosa, possa essere in grado di divenire veicolo e testimone di eventi inspiegabili. Egli fu protagonista di quelli che vengono ancora oggi definiti OBE (out of body experience), viaggi astrali nel corso dei quali tenne un accurato diario che in seguito rese pubblico con il titolo “I miei viaggi fuori dal corpo” in tali viaggi visse e visitò altre realtà parallele a quella conosciuta, dove l’essere umano poteva (o potrebbe) essere in grado di potenziare al sua posizione positiva compenetrandosi nell’altrui e nel “noi”.

Viaggi avvalorati non solo da testimoni dell’epoca ma dal teologo francese Francoise Brune il quale prese in considerazione l’OBE mettendola a confronto con le esperienze di premorte.

Alla luce dei fatti non è possibile perseguire ancora la metaforica strada dell’inconsapevolezza di fronte a dati tanto evidenti, al riguardo lo stesso Brune scrisse nel 1933 “L’oscurantismo scientifico, si sa, non ha niente da invidiare all’oscurantismo religioso” con l’evidente differenza che nel primo caso si predilige un rapporto con il tattile con lo –sfruttamento- esasperante della ragione, mentre nel secondo caso si predilige un rapporto spirituale e meditativo.

In questa premessa si vuole dunque evidenziare come l’essere umano sia in grado di astrarsi dalla tangibile sua emotività a tal punto che oggi nell’anno 2013 l’anno della fede (letta in senso ampio del termine) troviamo ancora lo sfruttamento dei minori nelle fabbriche per produrre abiti che verranno venduti a prezzi esorbitanti dall’industria della moda, lo sfruttamento dei campi per la coltivazione intensiva del cotone, lo sfruttamento delle risorse idriche ormai in esaurimento scorte, lo sfruttamento della sensibilità altrui.

E’ in atto un processo di (an)alfabetizzazione spaventoso, che dovrebbe mettere in allerta soprattutto le nuove generazioni, dato che il futuro fino ad ora era a portata di tutti, ma tra qualche anno il timore è che diverrà solo un bel ricordo.

 Iolanda La Carrubba


VIDEO: Tomaso Binga


Poesia- Tomaso Binga
Regia e montaggio video- Iolanda La Carrubba

VACANCY. Mea maxima culpa

Mea…nostra maxima culpa
Restare scioccati non basta più. Il film di A. Gibney: i preti pedofili, le ingerenze di poteri ancora troppo occulti e la voce “sorda” della coscienza civile
di Sarah Panatta
Non sento, non parlo. Ma ho la parola, della verità.
L’adunata giubila nel sacro serraglio. Il cupolone paterno, rotonda divina incombenza, vedetta una-trina, gigantesco e impassibile sulla piazza. Papa Francesco. Solo Francesco. Il nuovo vicario cristiano sulla terra. Mentre Ratzinger arretrava sotto il peso di un’età/era e responsabilità forse non più gestibili, mentre lo Ior tentennava silente, mentre Chavez si arrendeva al cancro. Il conclave ritualizzava la nuova necessaria guida, arrancando con gli stessi gesti e fendendo i tempi accelerati del secolo “connesso” con le stesse formule. Sfidando e insieme cibandosi palesemente e ancora ben accetto della stanchezza delle “genti”. Francesco prende ora (davanti ai capi di stato del mondo, mentre scriviamo), sulle spalle squadrate dalla “strada”, il destino dei reietti. Ma vorrà, potrà mai transustanziare e sciogliere nel predicato abbraccio collettivo quei beni/valori che la Chiesa ha sistematizzato in un circuito di paura/potere/devozione per lo più inaccessibile e poco francescano? Sguardo di compassione nazional popolare, Francesco sembra il farmaco auspicabile, la bandiera che risana, la scelta politica tempistica irripetibile. Oggi che l’America Latina, enorme bacino di cattolici e territorio-limine ulteriormente cristianizzabile, ha perso un leader ingombrante e poco propenso al compromesso. Ma Francesco e il suo Stato enclave parzialmente immune dalla giustizia mondana, non potranno a lungo ignorare. Tutti i buchi neri e la materia sfuggente di inganni e manipolazioni solo tangenzialmente sfiorate da qualche osservatore indipendente. Tutti i soprusi e le privazioni, le violenze e i ricatti che la Chiesa ha perpetrato negli anni contro gli stessi deboli che per missione ontologica dovrebbe sostenere. Chi si prenderà la colpa? Se lo chiede implacabile, fatto su fatto, il nuovo documentario inchiesta di Alex Gibney. Merita fiumi di parole, ma trattenerle è vitale, perché solo guardando/ascoltando il fardello sonoro delle testimonianze e delle lotte delle vittime è possibile dar loro dignità e comprendere lo spirito del film. Mea maxima culpa. Silenzio nella casa di Dio scioccherà, certo indignerà. Ma non dovrà passare in rassegna tra i ricordi schedati e ingrigiti della memoria collettiva. Gibney lascia “parlare” gli uomini abusati fisicamente e psicologicamente, tra gli anni ’50 e ’60 (furono oltre 200) da Padre Murphy, l’altro  mostro di Milwaukee, insegnante nella St. John’s School for Deaf della città (Wisconsin, USA). Uomini intrappolati come topi. Paralizzati in un’infanzia negata. Dall’abuso del prete ingordo ed egocentrato, ma anche dalla bigotta crudele strategia difensiva della loro comunità e della Chiesa “ai piani alti”. Uomini che hanno avuto la forza di denunciare. Alla diocesi, alla polizia, al Vaticano. E che ancora non hanno trovato risposte alle loro insanabili umiliazioni. Dopo sessant’anni. Gibney mette a sedere su una campitura scura, impersonale e accogliente, vittime, giornalisti, avvocati, prelati ed ex prelati, scienziati coinvolti o esperti a vario titolo. E risale la china densa, pastosa, di relazioni che vanno da Murphy a Ratzinger, inquisitore della “Congregazione per la dottrina della fede” prima che Papa. Dal violentatore seriale e organizzatore fervente di raccolte fondi per la Chiesa Padre Maciel, a Papa Giovanni Paolo II. Perché la Chiesa pur sapendo tutto ha lasciato che fossero sacrificate decine di innocenti. Perché non ha mosso le coscienze e snidato i fatti, ma si è limitata a insabbiare e a cercare e spostare da una parrocchia all’altra i preti pedofili anche reo confessi e recidivi? Perché gli arresti sono cominciati solo nel 2002, con lo scoppio della prima bolla mediatica a Boston? Perché? Quanto ancora dovremo educarci a insoluti “perché”?
Mea maxima culpa. Silenzio nella Casa di Dio. Documentario. Regia di Alex Gibney. Prodotto da Jigsaw. Fotografia di Lisa Rinzler. Montaggio di Sloane Klevin. Produttori Kristen Vaurio. Co-produttore Sloane Klevin. Produttori esecutivi Lori Singer, Jessica Kingdon. Produttori Alex Gbney, Alexandra Jones. Dal 20 marzo in sala.

VIDEO: DAVIDE CORTESE


 
"Mahara" è la prima opera cinematografica interamente realizzata da un eoliano.
Il cortometraggio di Davide Cortese, premiato dal maestro Ettore Scola nel 2004
alla prima edizione di " Eolie in video", traduce in poetiche immagini la leggenda di una strega eoliana
"Mahara"
regia di Davide Cortese;
con: Katia Cortese, Davide Cortese, Gina Pittari, Giuseppe Allegrino.
Quattropani, Lipari 2004.
B/N 10'38'' Musiche tratte dal Requiem di Mozart


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(Esca)RECENSIONE: il guanto bianco della poesia

il guanto bianco della poesia





Il guanto, al di là del suo utilizzo pratico, determinato dai rigori dell’ambiente, al di là degli usi estetici relativi all’abbigliamento, o dell’esigenza di proteggere le mani durante certi lavori o certe attività (militari, venatorie, ludiche), il guanto, è un oggetto al quale è stato attribuito, nell’ambito di varie culture, un rilevante valore simbolico.

Dal significato di ‘omaggio’ che gli conferivano alcuni popoli mediorientali nei confronti dei Faraoni, come dimostrano i pregiati guanti bianchi di lino rinvenuti nella sepoltura di Tut-ankh-amon, al valore testimoniale nelle alienazioni agrarie del mondo barbarico, per cui, chi vendeva un appezzamento, consegnava contestualmente all’acquirente un guanto riempito con una manciata di terra raccolta dal medesimo terreno; dalla volontà d’investitura feudale, o dal lancio contro l’imputato condannato, nel medioevo occidentale, all’accezione di sfida, protrattasi fino alle soglie del ventesimo secolo.

La simbologia legata al guanto si prestava peraltro a una possibile inversione di significato, per cui il dono di un guanto bianco, se da una parte esprimeva una manifestazione di solidarietà e di servizio nei confronti della persona a cui si donava, d’altra parte esibiva anche un forma di potere nei confronti di quella stessa persona.

Soprattutto il guanto femminile, o il guanto legato tout court all’emisfero femminile, continua ancora ad occupare un luogo preminente all’interno di una suggestione condivisa, capace di proiettarsi sul nostro immaginario, e rivivere attraverso altri linguaggi, come quello della poesia. A partire dalla cultura provenzale, nella quale, il guanto rientrava in un codice relativo al corteggiamento della donna, per cui se un ‘cavaliere’ offriva dei guanti bianchi profumati a una signora, e questa li accettava, ammetteva implicitamente di gradire, al contempo, anche i ‘servizi’ dello stesso ‘cavaliere’, ‘servizi’ che possiamo immaginare galanti, poetici, ma su cui non è certo indebito fare altre congetture. Difficile non richiamarsi, come emblematica estremità moderna di questa suggestione, al guanto, benché nero, di Rita Hayworth, sfilato con estenuante e sensuale lentezza, nel film “Gilda”.

L’invertibilità significante di questo simbolo trova una naturale corrispondenza nella poesia, e in una delle sue attitudini prevalenti, e cioè quella di dilatare l’alveo nel quale i simboli accolgono i loro significati; e ancor più trova corrispondenza con la poesia al femminile, o anche, con la natura femminile della poesia, che è tale, come dice Robert Graves, per cui “nessun poeta della Musa diventa conscio della Musa se non attraverso l’esperienza di una donna nella quale dimori in una certa misura la Dea”.

La riattualizzazione del guanto bianco, nell’ambito di un evento come quello delle “8 poetesse per l’8 marzo”, che riveste pur sempre in modo preminente un valore civile progressivo, non è quindi estranea a un intento di espressione poetica anche in senso lato, divenendo il segno di accoglienza e solidarietà dell’uomo nei confronti della donna: un segno praticato tramite l’affermazione celebrativa, in un giorno molto pregnante, del linguaggio poetico femminile, se non di genere femminile. Un evento inteso barthesianamente come atto poetico-artistico, poiché salda la sua immagine con la ‘cosa’ femminile in sé, in un mondo ancora in parte rovesciato in senso maschile, proponendo un passo ulteriore che spinge l’accoglienza e la solidarietà in direzione dell’‘innamoramento’ nei confronti del genere.

È un’evenienza, quella che fonde il femminile al poetico, che, per quanto mi riguarda, viene da lontano, e che segue una corrente continua, lasciando dietro di sé delle tracce, a volte non del tutto comprensibili, ma suggestionanti, come la dedica scritta da una donna, nell’aprile del 2008, sulla prima pagina della “Dea Bianca” di Robert Graves, poco tempo prima di uscire dalla mia vita con quel dono letterario inatteso, e, evidentemente, con un auspicio amorevole: “qui trovi le origini della tua passione e il futuro della Dea: insieme fanno il tuo presente”, affermando verosimilmente, e inconsapevolmente, con le sue parole, e ancor più con il suo tragitto di allontanamento, la sua entità di donna particolare, eletta dalla Dea a suo strumento “per un mese, un anno, sette anni o anche più”, come avrebbe detto lo stesso Robert Graves, convinto che il poeta possa sempre ritrovare la conoscenza della Dea attraverso altre incarnazioni del femminile, così come poi è avvenuto. Altrettanto inesplicabile appare l’incontro con un’altra donna, una delicata teatrante, la quale, qualche anno prima di tale incontro, scrisse e allestì per il Teatro delle Briciole di Reggio Emilia, e per il Teatro Due di Parma, uno spettacolo ispirato alle dieci incisioni di Max Klinger, intitolate “Parafrasi sul ritrovamento di un guanto” e che ispirarono anche, nel 1996, una bella canzone di Francesco De Gregori. Nell’opera dell’artista tedesco, si tratta di un guanto bianco ‘perduto’ da una giovane pattinatrice, e raccolto da un altrettanto giovane pattinatore, lo stesso pittore che si autoraffigura. Questo caso, apparentemente insignificante, diviene il tema di dieci enigmatiche incisioni, in cui la storia del giovane e quella del guanto bianco si confondono, e in cui il guanto bianco diviene il simbolo della donna come desiderio, e del desiderio di conoscenza della sfera femminile, che porta con sé le angoscianti paure del maschio.

Dalla identificazione, e dalla conseguente rimozione di queste paure, spesso moventi sotterranei della violenza sulle donne, sarebbe ragionevole impegnarsi in un percorso di armonia fra i generi, specie in un momento in cui, nel Paese si agitano campagne reazionarie che tradiscono il subdolo intento di rimettere in discussione diritti faticosamente acquisiti.

Con le “8 poetesse per l’8 marzo” ritorna dunque il guanto bianco della poesia, dopo la parentesi del guanto nero, che, per esprimere solidarietà a tutte le donne vittime di stupro, e a Navte Singh, il cittadino indiano aggredito e bruciato alla stazione di Nettuno nel febbraio del 2009, evocava in modo non certo anacronistico le Olimpiadi di Città del Messico del 1968, e l’eclatante gesto dei velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos. È un ritorno non certo originato dalla scomparsa del problema, ma semplicemente da una candida, irrazionale, fiducia.

Ugo Magnanti

SHORTS: Reality o Sur-Reality?


di Iolanda La Carrubba


Reality un film di Matteo Garrone uscito nelle sale a settembre del 2012 denuncia ed affronta una questione fondamentale per quella che è (o che sarebbe) la nostra "nuova"società.

Aspro,drammatico con un forte impatto visivo è la storia di un uomo ingenuamente semplice che vive in un sud Italia ancora più sud di quanto si possa pensare.

Luciano padre di tre figli con una moglie dai tratti e dai modi gitani, sogna il sogno comune che hanno i suoi stessi concittadini; l'opulenza e l'inadeguato traguardo ad un successo fatiscente. Per non deludere i figli decide di partecipare ai casting de "l grande fratello" (il che è tutto dire) e da quel momento in poi ogni sua certezza crollerà.

Unico amico "custode" questa presenza eduardiana Michele suo confidente, sua ragione, sua speranza che  fin dalle prime note d'entrata, cercherà di essergli vicino e di condurlo in un modo o in un altro, verso quello che dovrebbe essere, anche in un epoca tanto consumistica, il trait d'union ovvero un rapporto anche del tutto personale con l'Assoluto.

E' dunque questo un film intelligentemente nostalgico, forte, grottesco, riflessivo difficile da digerire per quel popolo nutrito in batteria con avanzi di basso, bassissimo contenuto culturale rigettato da scadenti talk, ed è proprio per questo coraggio di denuncia che il film va ed è premiato. La regia che sostiene ogni scena con capacità, ci regala qualche fugace citazione felliniana tanto che ci si interroga se questo più che un reality (realtà cruda e senza filtri) sia invece un Sur-reality, nipote appunto di quel percorso geniale che fu il surrealismo (penso al tempo che passa e lascia miti rivedendo gli orologi di Dalì).

Anche la colonna sonora ci regala qualche dejà- vous riportandoci in ambienti burtoniani, favole dark alla ricerca di speranze.

Triste poi vedere cosa divennero gli studios di Cinecittà nel momento in cui Luciano varcò la soglia per i provini, dove lì nel bel mezzo del prato curato, chic troviamo quest'assurdo acquario. Ci si interroga allora se è così l'evoluzione, ovvero assistere allo sfiancante collasso socio-culturale di una realtà devota solo al reality.

Oggi dove i media e i new-media dominano la sala comando, assistiamo attoniti ad un cambiamento triste dell'essere/esistere a tutti i costi, costi quel che costi. Ci si stringe la mano in un tweet, ci si saluta con un "mi piace", ci si confronta in un portale dove tutto è finzione o peggio ancora Reality.

In questo New-word intrigato e costellato di insidie, seguire impronte più sagge , ricorrere ad un colloquiale rapporto con l'altro, risfoderare il caro vecchio bon-ton, forse renderebbe questo caos meno disarmante.




REGIA: Matteo Garrone
SCENEGGIATURA: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso
ATTORI: Aniello Arena, Loredana Simioli, Claudia Gerini, Ciro Petrone, Nunzia Schiano, Nando Paone, Graziella Marina, Paola Minaccioni, Rosaria D'Urso, Giuseppina Cervizzi, Vincenzo Riccio, Salvatore Misticone



FOTOGRAFIA:
Marco Onorato
MONTAGGIO: Marco Spoletini
MUSICHE: Alexandre Desplat
PRODUZIONE: Fandango, Archimede, Rai Cinema
DISTRIBUZIONE: 01 Distribution
PAESE: Italia 2012
DURATA: 115 Min
FORMATO: Colore



Vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes 2012

POESI-CANZONE: Corporale Prossima




Poesi-canzone a cura di Iolanda La Carrubba
testo di Marco Palladini
musica e canto di Amedeo Morrone

RACCONTO: MONICA MARTINELLI

“SCUSI, LEI ABITA QUI?”
                                   "La grande nostalgica ninfa rossa" olio su tela 2010 Mario La Carrubba
Ogni mattina alle sette vengo svegliata da un oggetto che fa tic-tac ed emette suoni sgradevoli e ripetitivi.  Piena di sonno, apro prima un occhio e poi l’altro e decido che è ancora troppo presto per alzarmi. Qualche volta mi sveglio di soprassalto mentre sogno che la sveglia sta suonando.
Mi consola pensare che è l’inizio di una giornata “tipo”, come quella di milioni di persone che seguono gli stessi ritmi secondo le stesse  sequenze: alzarsi, una doccia e via, un caffè al volo (la giusta dose di veleno per cominciare la giornata alla grande). Poi di corsa al lavoro, a tentare di salire su un autobus sempre strapieno, oppure dentro la macchina in coda su strade affollate sin dalle prime ore del mattino.
Certo qualcuno è più fortunato, prima di uscire da casa per recarsi al lavoro non deve fare il bucato, cambiare pannolini, pulire due chili di fagiolini e farcire un pollo intero destinato a sfamare la truppa familiare per il pasto serale. Invece molte donne prima di cominciare il “vero” lavoro si trastullano in queste amenità. Durante la pausa pranzo devono pure procacciarsi i viveri, e non appena ritornano a casa nel pomeriggio devono scarrozzare i figli in automobile, uno a nuoto e l’altro al catechismo. Non hanno tempo per andare in palestra, ma tanto non importa, di movimento ne fanno già abbastanza.
Io sono più fortunata, io non sono tra queste martiri del focolare domestico. Vivo in famiglia e ci pensa mia madre all’ingrata custodia della casa. Un tesoro di mamma che mi fa trovare pronta ogni cosa: dalla prima colazione la mattina, alla cena quando torno a casa la sera, stremata dopo una giornata di lavoro.
Si occupa anche di fare la spesa e di tenere la casa dignitosamente pulita (per fortuna in famiglia siamo solo in tre).  Per non parlare poi della biancheria stirata.  E sicuramente ho dimenticato qualche altra sua dote.
Se dipendesse da me la casa sarebbe una vera e propria  maison du désordre, e un posto dove trovare un indumento pulito tra quelli sporchi diventerebbe una scommessa.
Fosse per me mangerei ogni giorno le stesse cose (tipo panini al prosciutto e formaggio o wurstel con ketchup), senza alcuna attenzione a diversificare la dieta. Grazie a mia madre, invece, che prepara gustosi manicaretti, posso anche scegliere il menu…Non è deliziosa?
Scusate, non mi sono ancora presentata: mi chiamo Francesca, nome non troppo originale, lo so, ma si vede che i miei genitori non avevano tanta fantasia in fatto di nomi.  Ho trentadue anni. Segni particolari: né bella né brutta, mediamente passabile, molto pigra.
Lavoro da quattro anni presso un ministero e farei quindi parte di quella schiera di “fannulloni” tanto vituperati da un ex ministro nano.
Avrò forse la sindrome di Peter Pan? Può essere, sta di fatto che non ho nessuna intenzione di schiodare da casa. Sposarmi? Fare dei figli? Al momento non ci penso proprio, poi si vedrà, del resto ho ancora tanto tempo per farlo.
Tutte le mie amiche si sono lanciate nella carriera, chi è avvocato, chi medico, chi manager aziendale, e poi naturalmente riescono pure a tenere a bada un paio di meravigliosi marmocchi ciascuna e a fare di tutto e di più…Saranno donne bioniche!
Mi dicono: “Vedrai che presto non ne potrai più di quel lavoro, è alienante” (mentre, ovviamente, quello che fanno loro è a dir poco entusiasmante…) – e ancora: “Nei ministeri si guadagna così poco e la carriera è difficile o quasi impossibile se non hai la  raccomandazione”.
Invece io trovo stimolante un lavoro semplice  e ripetitivo come mettere timbri sulle pratiche o inserire nei terminali un mucchio di dati che non serviranno a nulla. Insomma, un lavoro che non sorprende mai, giacché io le sorprese le trovo così noiose. In fondo pure questa può risultare un’attività creativa; dipende sempre dal punto di vista di chi guarda.
Come ogni giorno, puntualmente esco da casa alle ore 8 per andare a prendere l’autobus che mi porta in ufficio.  “Chissà oggi quanti dati riuscirò ad inserire oggi” penso fra me e me.
Nell’androne incontro la signora del piano di sopra. Poverina, da qualche anno soffre del morbo di Alzheimer. Esce solo se accompagnata da qualcuno, perché rischia di non ritrovare la strada di casa. La vedo sempre con una donna alquanto giunonica che parla con accento straniero, sarà la badante. Non riconosce i condomini e credo neanche i suoi figli.  -  “Scusi, lei abita qui?”  -  domanda a tutti quelli che incontra, mentre mi fissa con uno sguardo un po’ perso. Guardo il movimento delle sue labbra. Non sa che non posso sentirla e neanche risponderle perché sono sordomuta.
La sera torno a casa alla stessa maniera e con lo stesso stato d’animo con cui sono uscita la mattina.  E’ il destino di milioni di persone.
Sarà questa la felicità?

Monica Martinelli

POESIA: MASSIMO PACETTI


Foresta

Mi darai da mangiare

se verrò da te, foresta

                  mi farai sopravvivere

                  nel tuo cuore, nel tuo corpo

                  foresta

Da qua, dove adesso mi aggiro

spaventato, dovrò fuggire

                  nessuno me l’ha ordinato

                  non si curano di me

Nessuno si cura di nessuno

                  dovrò fuggire

qua dove vivo

anche l’amore si compra

e la bellezza

è una merce inutile


sono andato al mercato

stamattina, per vendere

i versi che ho scritto

sui tuoi alberi, foresta

                  sui tuoi irrequieti

                  e fantastici abitanti

sul mare, sul tuo cielo stellato

sulle montagne, sul deserto

                  Ho speso tutti i soldi che avevo

                  per viaggiare

                  e raccontare la bellezza

                  dei miei incontri

Nessuno ha comprato

la bellezza

che avevo scritto

nei versi

ai poeti, non compra nulla nessuno

                  e ora ho fame

                  e non ho da mangiare

verrò da te, foresta

a chiederti aiuto

                  se mi regalerai i tuoi frutti

                  sopravviverò

e scriverò ancora

della bellezza

                  scriverò di te foresta

                  ti ripagherò con il mio amore

                  per il tuo incanto

per la tua anima generosa

per la tua clemenza

e per il tuo silenzio sussurrato.


ore 12.40 del 27 gennaio 2012

Massimo Pacetti

POESIA: Rosaria Di Donato

Forse le parole

forse le parole potranno
donare un senso ai giorni
ravvivare l’imbrunire
forse le parole potranno
scandire il tempo dei ricordi
circondare il presente di attenzioni
forse le parole potranno
sciogliere il nodo che attanaglia
che soffoca in gola le questioni
forse le parole potranno
circoscrivere il diluvio
arginare la deriva dell’io
forse le parole potranno
vincere il timore
scardinare la resa
forse le parole potranno
accendere il giorno
adescare la vita

Rosaria Di Donato

POESIA: "dis-carico"


 Teatrinpoesia 1
 dis-carico
di sarah panatta, performata con Iolanda La Carrubba

Altri monti sbaraccati, habemus scavi

                   No, è Francesco, solo Francesco populi vox

Franca-mente, dicevo scavi, le malegrotte sono ormai sazie, in infrazione, euro abusata congestione

                                  So, che è un mono, un monopolio incerronato, togli il belletto

e vedi quanto percolato, giù, dis-caricato

                                  Ma l’ha detto un Tar, l’ha detto un Tar, una giuria di nostri par…

Vorresti qua, intavolare il sillabario della pari distrazione,

                                   no, sotto silenzio sto osservando la normativa confusione,

Grande Fratello, il media-attore, sarà lui, vedrai, a rimpastare la costituzione

                                   E’ un attentato!!!

Chi l’ha tentato?

                                   Chi tenta chi? Il Santo, santo prelato, tenta parole, verba sunt, verba manent?

Verbosa-mente sinora niente, verba volant, aria pastosa, non osa, ogni impennata costosa

                                  Restiamo allora in quella posa, parola parole di parole

Come al solito, parole tra Noi

POESIA: Nicole Barrière

Celui qui nomme exil une porte ouverte, ne sait pas ce que retient le seuil.


Lavandes I

Alors on se pressait dans un nuage de brumes, et le nuage était un soleil blanc,
et les essences de l'être, grandes lignes de silence, dansaient dans le soleil tremblant

Lavandes! douceur fraîche des sachets bleus entre les draps de lin
Douceur extrême posée sur la baptiste des mouchoirs,
Ciel profond d'oliviers trop vastes pour l'or du couchant.

Ils rêvaient de ce pacte indicible qu'un peintre esquissa un soir d'allégresse
et les lavandes hautes dansaient entre deux astres,
inventaient les traits sombres et la terre traversés de printemps

quel soleil inaugurait la vague à l'est des lignes courbes?

Lavandes! un royaume d'abeilles en distillait le miel
alors se levait un gout de sucre rare, grave comme la bouche de femmes taciturnes
fragiles ombres évadées des paupières
se souvenant de temps heureux.


Lavandes II

Grand deuil de femme,
les années disparues
Lavandes lumineuses, clair de terre
Sur leurs hautes tiges mauves
elles appelaient la lune
comme les bergères de ce cri d'oiseau de nuit
Belles et tendres comme des libellules
Évanescentes ailes entre deux murets de pierre sèche - si près de la mort -
on sentait vaciller les paupières au battement d'élytres
le soleil courbait la ligne du ciel.
la lumière chantait près des ruchers
frisson d'oiseaux dans l'air de glace transparente.

Le soir.
Je me souviens du vent,
je me souviens du vent traversant les collines, des larmes vives au coin des yeux
Amour déçu d'une infante
Quel jardinier lui rendrait ses jardins de Grenade, ses rêves de pirogues enjambant le destin?

Je ne sais plus si le vent arrêtait ses larmes
si l'eau de son sourire abreuvait la nuit.
tandis que le monde vacille entre ses extrêmes
des eaux lentes du soir au lait des galaxies

Qui réchauffera le cœur noir de l'infante?
Lavandes III

Dans les lavandes toutes sortes de plantes et le silence du matin.

On t'appelle. Viendras-tu?

Renoue à la source d'enfance
Lentes plantes humaines
aux croissances incertaines
où tout n'est que rêve et tremplin de lumière.

Tendre l'ombre jusqu'aux lisières du rêve
Pouvoir voler le feu
Sans que le malheur en assèche la flamme

Et l'onde remuait entre les galets
soulevait un nuage de cendres
et la tristesse des loups que la peur tenaille.

Crois encore aux songes, à ce drap de lin bleu  tendu entre les âges
aux eaux vives du torrent bordé de violettes
Traversées d'hiver dans le puits des enfermements
il te faudra renaitre  par le soudain éloge du soleil , par le ciel bleu

Lavandes!
Sans nuage est la nuit étoilée.

Lavandes IV

Il te souvient de ces pleurs au matin des grands bans de tristesse
des nuits trop longues d'insomnie dans l'exil des jours
de l'effroi, de la peur, du silence résistant à l'appel.
Et ce regard de fièvre lente de la mort.

Pleure! pleure au creux des vieilles pierres
entre les bras de l'aïeule
pleure!
nul secours ne viendra des racines mais des galets cueillis au fond du lit

Lente et pâle tu te lèves, il faudra du courage, tu mettras un grand chapeau de soleil
pour abriter ton rêve,
tu ouvriras grandes les portes de l'exil
pour que les rayons en assèchent le seuil
tu inonderas la pluie venue de l'ouest avec les larmes de la nuit
Tièdes larmes de la douleur du monde que tu ne peux porter seule

Et voilà à ta bouche la douceur de l'amante, le suc des fleurs en pleine lumière
Midi. la vie sera belle si tu lèves la fleur noire qui couvre tes paupières
à l'ombre des persiennes.


Lavandes V

Il n'y a pas lieu de prier le front entre les mains absentes
Te souviens-tu des heures nocturnes quand dérive le monde entre tes mains?
Te souviens-tu des heures d'aube grise où tu résistes à la nuit?

Midi sans ombre t'appelle
Va sur les quais oublier l'exil des grands voiliers
où échoue la misère des peuples.
La terre ferme retient la mer hantée d'illisibles départs
au parfum entêtant des jasmins
Midi ouvert contre les plus vastes crimes
Midi au souffle de ton âge de naître vive
par la seule tendresse au jardin du poème
il y a lieu de prier l'abondante saison d'aimer.
Lavandes VI


Lavandes!
sur la haute garrigue veille la flamme bleue d'étoiles naines
la voix de blanche lune dénude les mots
Les loups se taisent de tristesse, tenaillés par la peur
Torches vives, les lavandes endurent la flamme du rêve étoilé et la solitude des loups.


Épilogues

Quelques mots blessent la mer
au lait bleu des vagues
Brise lisse du temps
le sang bat dans l'orbe des galets.

Aux cœurs de pierre
faire don de la source

Pleurerait la colline
au port des grâces
sur le front des vagues
se drape le soleil
dans sa discrète houle
de sang.

L'irritation des vagues
accuse la lumière

Frotte le galet
jusqu'à faire luire la jeunesse de la mer.

La force de l'écume berce le cri  désespéré
La langue étrangère de la mer se comprend au murmure des vagues

Lumière - tôle renversée où se plissent les vagues
oiseau- essor blanc où chante le zénith
arbre- tronc échoué , seul rescapé de la houle

Désormais cette plage que plus rien n'inspire
le jeu solitaire de la baigneuse entre les pages de magazine
l'homme au pas chancelant dérange les galets

Ah cette fraicheur d'eau sur le tempes
avant que le sel n'en blanchisse les bords
rive grise - insolence du temps

Attendre que la vague t'emporte de l'autre côté de son flanc
quelque chose de rude s'éprend du silence, te brise jusqu'à te rejeter débris de sable.

Avance entre deux hivers
dans le sillage de l'hirondelle.
28/03/12 Nicole Barrière

Poète, écrivain, essayiste, traductrice, Nicole BARRIERE a publié de nombreux recueils de poésie. Ses poèmes figurent dans de nombreuses anthologies et revues.
Administratrice de l'association "Du côté du Pont Mirabeau" à Paris,
Membre de la Société des Gens de Lettres et de Maison des écrivains
Directrice de la collection Accent tonique aux Éditions l'Harmattan et  de la collection « Terre natale » Éditions Phoenix (USA)
En s'engageant de manière militante pour les femmes et la paix, elle a lancé en 2001 un appel aux poètes du monde entier : « 1001 poèmes pour la paix et la démocratie en Afghanistan » Elle défend la francophonie, les langues et les cultures menacées.
Grand prix européen Orient-Occident du festival Cuerta de Arges (Roumanie) en juillet 2010.
Prix de  poésie féminine  Simone  Landry 8 mars 2011 France
Prix d'honneur pour l'ensemble de son oeuvre MNAC Liban 2011
Ses poèmes sont traduits en italien, persan, espagnol, roumain, kabyle.
Elle travaille aussi à des créations en collaboration avec des vidéastes et des plasticiens, et organise de multiples lectures dans les associations ainsi que dans des manifestations internationales (Italie, Mexique, Sénégal, Algérie, Argentine)