giovedì 1 agosto 2013

Vacancy: Sergio D'Amaro


Dai Beatles a “Baarìa”. Quel che resta della Baby Boom Generation

di Sergio D’Amaro

  Guardando il film Baarìa di Giuseppe Tornatore, sono tornati alla memoria molti altri film che si erano andati sedimentando col tempo. Pellicole non solo di celluloide, ma immagini di un universo che pareva abolito nel lungo processo di cancellazione delle forme di vita. Una storia di paesi che avevano respirato all’ombra della storia e all’interno di una geografia meridionale assorta nei suoi ritardi e nei suoi arcaismi. Permaneva, nei fotogrammi di Tornatore, un’indimenticabile atmosfera mediterranea piena di richiami magici e di una vitalità primitiva. L’origine delle nostre generazioni stava in quel respiro astorico, in quell’universo rinchiuso in un rigido sistema neofeudale. Erano immagini e richiami e paesaggi che avevamo imparato a conoscere già allo schiudersi della prima infanzia e che avremmo poi riconosciuto come assolutamente necessari per costruire una visione della ‘provincia’, sentita volta a volta come isola, periferia, margine, utopia, maledizione.

   Prima che venisse tutto il resto del Novecento, quei fotogrammi di Baarìa (in realtà rubati a set nordafricani) identificavano rapidamente il luogo che ci aveva illusi della sua eternità. Lì la storia e l’invito ad un qualunque grado di maturità sembravano del tutto inutili, del tutto indifferenti. La sensazione era che il mondo e la storia fossero rimasti fissati ad un orologio senza lancette, ad un orologio che si era rotto nella catastrofe della Seconda guerra mondiale. Si ricominciava da capo, questa era la sensazione: e si ricapitolavano, per questa via, i successivi processi che avrebbero condotto all’affermazione della civiltà agraria e della civiltà industriale.

   Questa condizione pre-storica era la nostra più vera provincia: era una provincia così interiorizzata da risultare terreno germinale per lo sviluppo di una qualsiasi vita, di un qualsiasi pensiero. Dalla pianura sterminata di questa provincia decollerà come un aereo il protagonista-bambino di Tornatore, volando al di sopra del suo paese e proiettandosi verso il suo futuro. Che immagine sublime di poetica prefigurazione del destino e, insieme, di slancio della volontà eticamente sostenuta! La sensibilità di quel bambino resta marchiata dal paesaggio fisico e culturale della provincia: ne sono componenti essenziali i sapori della campagna, i sopori della controra, le storie di guerra, le leggende brigantesche e religiose, i ricordi di famiglia, i sentori di emigrazione, le passioni politiche, le botteghe degli artigiani, le donne che portano pane e pizza ai forni. È un mondo apparentemente immutato, ma che ha probabilmente già toccato la tela ruvida del jeans o ha visto incuriosito il passaggio di una jeep, o assaggiato con un sorriso imbarazzato il gusto elastico del chewing gum. È un mondo che sta per cambiare, chiamato com’è ad incontrarsi e ad integrarsi con una realtà più larga, dinamica, veloce. È anche da questo momento che il paese diventa più esplicitamente una frontiera: lo è stato, certo, già all’appuntamento fatale con l’emigrazione tra ‘800 e ‘900, ma ora è diverso. Non è solo più una frontiera geografica che si muove ed entra in tensione, ma è una frontiera culturale che interagisce con territori storici che si moltiplicano e rendono plurali gli scambi e più urgente la decisione se conservare o distruggere.

   Il 1960, quando il nostro bambino è diventato un adolescente, irrompe con le Olimpiadi di Roma. I paesi del Sud e la nostra provincia hanno fatto un piccolo passo in più. La televisione, il registratore, la macchina fotografica certificano un nuovo Italiano. Quanto è ancora antico e quanto è ormai moderno sulla frontiera di una nuova età? In questi anni decisivi, scanditi dalla corsa non solo olimpica del boom, gli anziani lasciano ai più giovani il messaggio di una generazione. I baby boomers (s’intendono qui i nati nel primo ventennio del secondo dopoguerra) non possono deludere l’eredità che gli viene offerta e accettano di difendere come un viatico ciò che la cultura mediterranea ha di più prezioso: l’antico mondo contadino e l’apertura dei confini allo sconfinato scenario di un mare di incroci e di scambi.

   La memoria popolare si sposa, in simbiosi orizzontale, alla liberazione del sogno beat. Una “Baarìa” resiste in fondo all’anima, ma c’è insieme, ormai, il gusto della contestazione, il bisogno di una nuova cultura, la critica e la ribellione anticonformistica. Si diffonde una frenesia sperimentale ed insieme si cerca di salvare ogni più piccola traccia di un’umanità che perde voce. È la prima generazione, quella dei Baby Boomers, a creare archivi militanti, a registrare voci vive, a documentare ogni più piccolo retaggio di questo mondo ormai alieno, alternativo e marginale. La storia si inginocchia ad ascoltare gli offesi, i piccoli, gli esclusi. Così come accadde nell’immediato dopoguerra con le molteplici edizioni di memorie e di testimonianze, di scampati alla morte e a pericoli d’ogni genere, così dagli anni Sessanta in poi gli studiosi di storia e di antropologia, i giornalisti, i ricercatori a vario titolo registrano un flusso abbondante di esistenze che si raccontano, si lamentano, ricordano, esprimono speranze e rammarichi. È l’antico mondo popolare che scioglie il suo saluto alla lunga permanenza nella storia d’Italia. Il Sud, del resto, si “nordizza”, accoglie supermercati e autostrade, si converte al progresso inarrestabile della globalizzazione.

   È questo scenario che si fissa con più prepotenza nella mente della Baby Boom Generation, è questo passaggio epocale da una civiltà all’altra che si fa sostanza di memoria per ogni ulteriore teatro di realtà. Il punto nodale è che esiste un prima e un dopo della modernità, un’infanzia e una maturità di scenari, una realtà e poi un’altra che fanno fatica ad integrarsi, anzi confliggono, si confrontano e si elidono, si ignorano e si criticano. Di qui nasce una coscienza dell’opposizione, una coscienza della resistenza. La cultura popolare, il mondo contadino conservano un passo naturale, conservano e difendono la dimensione della lentezza, la sfera di ciò che è non-razionale, non-borghese, non-industriale, non-artificiale, non-monocentrico.

   Tutto questo finisce per assumere un carattere rivoluzionario e finisce per essere agglutinato alla cultura della contestazione anticapitalistica e anticonsumistica che arriva dagli Stati Uniti e si diffonde rapidamente soprattutto in Italia. Freud e Marcuse si ritrovano saldati a Scotellaro e a de Martino, Marx e Gramsci risultano perfettamente d’accordo con le tendenze ribellistiche del rock e del beat. Baby Boom Generation significa, in modo originale, questo: cioè la sintesi inaudita di elementi critici che rifiutano facili omologazioni, la saldatura urgente di passato e presente, l’altrettanto esigente volontà di sperimentare stili e teorie. La forza fondativa di essa sta nel mix straordinario di questo brodo di coltura, inedita fonte energetica composta di cultura secolare e di cultura alternativa, di capacità critica e di utopia sedotta e liberata attraverso melodie amplificate ed elettrizzanti. La Baby Boom Generation finalmente è in piena creatività, si plasma nell’arte pop e informale, si fortifica nel cinema e nella politica, è pronta a scrivere romanzi e poesie. Il passaggio epocale da una civiltà all’altra resta il nucleo forte della coscienza, il nodo essenziale di ogni mitologia: seduce la natura, ma seducono anche i Beatles, attrae il canto amaro di Scotellaro, ma attraggono anche le mode provocatorie e il liberatorio juke-box.

   Forti di questo viatico, giovani e meno giovani della Baby Boom Generation si apprestarono ad affrontare gli anni successivi. In questo riuscirono a portare con sé il senso di una conquista ineguagliabile, il sicuro possesso di un piccolo tesoro di esperienze capaci di tener accesi ragione e sentimento, qualunque cosa potesse avvenire in seguito.

   C’è, poi, una rottura, un vuoto insopportabile, una spinta nichilistica che sconvolse quella generazione. Fu il terrorismo e la lotta armata, la degenerazione ideologica e il fanatismo politico: ma questa malattia, questo sogno trasformato in incubo, fu solo di una minoranza. Per molti, per i più, gli anni Settanta furono, invece, anni di splendida giovinezza, di piena realizzazione di valori e di convinzioni, di maturazione intellettuale e di fervida operosità. Per chi restò al Sud, non cessò mai un richiamo morale almeno a conoscere meglio queste terre, a sondare più in profondità la loro cultura. Tutto questo era la diretta e naturale conseguenza del decennio precedente, come a ribadire una mentalità che stava semplicemente agendo in un contesto diverso, in una situazione senz’altro cambiata.

   Rivediamo quegli anni che, per altri, furono feroci. Nella distanza del tempo arrivano soltanto echi, flash, immagini. Raccogliamo i ricordi, come foto ancora vive sulle pareti di una galleria sentimentale: siamo noi e non più noi, e tutti gli altri che non conoscemmo e a cui non parlammo, con i quali facemmo un lungo tratto di strada, varcando inconsapevolmente insieme la soglia di età diverse, che dai padri si proiettavano sui figli, confondendosi poi nel più stretto giro di classi anagrafiche ravvicinate.

   Rispetto a quella identificata come Baby Boom Generation, la generazione dei nati nei primi anni Settanta incontrerà un mondo già totalmente trasformato all’ingresso nell’adolescenza: tramonto delle grandi ideologie, fine della Prima Repubblica e del comunismo, televisioni private e arrembante edonismo e individualismo, le classi popolari - la cultura popolare - ormai confuse con le classi medie e la cultura piccolo-borghese. Queste nuove generazioni saranno immerse fino al collo nel neo-razionalismo borghese, in una globalizzazione spinta, in una omologazione morbida, in una televisizzazione onnivora e in una crescente nevrosi comunicativa, che sfocerà nel telefonino e nel social network. Esse non conosceranno un prima e un poi, non proveranno vere passioni politiche, non godranno di una vera e originale cultura giovanile. Il loro destino è stato quello di provare a riguadagnare l’autenticità senza davvero riuscirci. Non hanno avuto né una Baarìa, né i Beatles, hanno dovuto rovistare tra ciò che restava del grande magazzino di utopie, di miti e di progetti a cui avevano attinto con facilità finanche prodiga quelli della generazione precedente.

   In letteratura ne abbiamo saggiato gli esiti. Oggi come oggi si avverte una vera e propria rottura storica, un cambio di marcia del mondo, un diffuso senso di apocalitticità. Il quasi ventennio berlusconiano ha plasmato ulteriormente lo stile di un’età, facendole assumere i connotati da Basso Impero. Nel 1994 dominava nelle classifiche un titolo che poi ha fatto scuola, ammiccando ad imperativi e ottativi, Va’ dove ti porta il cuore, con Susanna Tamaro impegnata ad ascoltare la voce della nonna e con l’implicito invito dunque ad andare controcorrente, a riflettere probabilmente sulla memoria e sulla storia. Nel 1993 esplodevano le bombe mafiose di Roma e di Firenze, dopo quasi vent’anni, con Gomorra di Saviano è sembrato che il tempo avesse fermato le sue lancette e che l’attenzione fosse ricaduta fatalmente sullo stesso fenomeno. Ed è successo anche nella saggistica, dove alle caste tanto vituperate della Prima Repubblica si sono aggiunte quelle descritte nel libro di Stella e Rizzo. La letteratura sembra diventata un allarme etico, le fortune editoriali maggiori vanno a Camilleri e a Carofiglio, che sanno intrecciare trame all’altezza di tempi tanto bui. Anche la critica dibatte, è allarmata, e giustamente i migliori in campo – Fofi, Berardinelli, Cordelli, La Porta, Ferroni, Luperini, Cortellessa, Onofri e qualche altro – non si stancano di denunciare il degrado e di lanciare ciambelle di salvataggio.

   Dove è arrivato l’antico bambino che abbiamo lasciato mentre volava sui tetti di Baarìa? Dove è approdato il suo sogno di liberazione, di grandezza, di felicità, di bellezza? Si è incarnato ora, forse, in quel ragazzo che prende il treno e saluta il padre dal finestrino andando a studiare al nord? Forse questa è l’immagine che ancora conserviamo di generazioni che si sono avvicendate in questi ultimi cinquant’anni. Padri e figli, fratelli maggiori e fratelli minori, donne e ragazze, che hanno seguito la scia del Novecento e oggi si ritrovano a salvare ancora una volta la storia. Lo abbiamo notato con Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, con Accabadora di Michela Murgia, con Acciaio di Silvia Avallone (e potremmo e dovremmo sospettare altre buone o ottime opere non emerse in classifica): di nuovo una letteratura che si impegna sulla memoria e sulla lingua, si riconosce uno stile e una dignità, osa credere che un nuovo giorno non nasca soltanto per illuminare le miserie umane.

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