Sorrentino-Servillo: la bellezza
de “l’uomo in più”
di sarah panatta
“Io mi ricordo…ricordo i microfoni a giraffa…Io mi ricordo
tutto…I teatri…i camerini…i flash…le lacrime degli spettatori…l’ispezione
anale…tutti volevano andare a letto con la star…Io non mi sono mai sentito
bello. Mi sono sentito potente…Non me ne è mai fregato un cazzo di nessuno…ho
sempre amato la libertà. Voi non sapete che cazzo significa”.
Primissimo piano, (ed è già) fine.
Non un commiato difensivo dallo show biz schiavista. Non un
apologo egocentrico e autoconsolatorio. Una presa d’atto. Un atto. Una
penetrazione in diretta, consapevole, e per questo non ruffiana, davanti a
telecamere votate a strappare il percentile voyeur dell’audience appena
sintonizzato. Ci dice di restare a guardare finché la cecità non sarà che un
rumore bianco nel buio del Viaggio. O finché non desteremo per uno sparuto
istante le pupille improvvisamente e brevemente terse dal languore appena
compartecipato del rimpianto. O finché non entreremo, insieme a lui, nella
risacca dell’esilio auto-condizionato, perciò liber(at)o.
Tony Pisapia, alias talento rifiu(ta)to, alias carne dal
macello post-moderno, alias Jep Gambardella, alias nemesi dell’intellettuale
che può/deve “dire” tutto a tutti per raddrizzare il mondo di tutto-tutti, alias
Toni Servillo, alias anima desiderante e corpo contundente del cinema
visto-parlato-scioccato di Paolo Sorrentino. Fulmicotone estetico, impressione meta-finzionale
di un cinema che è arte totale, geniale polpettone tecnico-visivo, armata
destrutturazione autoriale. L’uomo in più
(Ita 2001) scava un tunnel ideale per l’evasione barricata del più imperfetto
ma certo più complesso (e chiacchierato e sovra-strutturato e ghettizzato e
necessario forse) La grande bellezza
(Ita 2013).
Tony come Jep. Hanno sempre saputo. Bambini d’oro del sistema
cultura, facce oppositive, ugola prodigio sforna-hit da un lato; scrittore
della borghesia dirigenziale, mediamente acuto e straordinariamente acuto,
dunque impigrito perché disgustato, dall’altro. Hanno sempre saputo, hanno
ficcato il muso nel pantano del pascolo ma hanno lasciato scorrere i compagni
di belati informi, senza frenarli, o avvertirli del burrone. La ritualità della
caduta, o meglio la caduta ritualizzata. Pane per i denti di Tony/Jep. Uomini
in più, scortati da un male di vivere lontano da Fellini, Moravia o Sartre,
commutato in ansia bulimica recintata da terapeutico oblio resistenziale.
Il tempo della militanza è disgregato, irrecuperabile? O la
militanza è (da sempre) pura accettazione e riluttanza, vestita di avanguardia combattente
un giorno, travestita da girovaga dopata un altro? Jep come Tony, danzano tra i
fantasmi. “Ah ah, ah ah”. Nella discoteca-mattatoio, tra puttane, politici,
industriali, letterati, fantocci, ereditiere, cubiste, papponi, torture,
torturati e torturatori. Vita da hupper class, stessa dantesca purga di gelo e
di miseria. Nessun clamore, solo spazzatura tronfiamente aulente.
Primissimo piano, ed è sempre stata, Fine.
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