mercoledì 1 maggio 2013

racconto: Monica Martinelli


GLI ADDENDI DELL’INERZIA


 Londra corre. E’ dinamica, frenetica, compulsiva. Tutti vanno di fretta, nessuno medita, osserva. E’ il posto dove le persone sembrano più indifferenti perché troppo impegnate (chissà a fare cosa poi). Giovani esuberanti e rampanti popolano le  strade affollate della città; sembrano spinti dalla fretta e dall’urgenza di vivere. Vivere a doppia velocità: tutto e subito. Un’incitazione a fare li scuote. L’attesa è un lusso non consentito, o comunque qualcosa di cui si ha paura.
Londra è davvero strana, sembra che non esistono anziani, non esistono soste.  Anche nei parchi si vedono persone correre.
Ecco perché non mi piace Londra. Troppa confusione, troppa gente, operosità a tutte le ore e sempre. Io invece amo la calma, andare piano o piuttosto non fare niente. Ma non nel senso che sono svogliata o incapace a fare. Sono pigra, indolente, come se la volontà di fare qualunque cosa mi aggredisse all’improvviso ma, mancando di definizione, subito dopo si allentasse come un vestito slabbrato appena indossato.
Così la pigrizia era qualcosa che mi combaciava e che mi prendeva e lasciava malgrado il mio consenso. Sin da bambina mia madre mi rimproverava di essere pigra, di stancarmi presto di tutto ciò che cominciavo e di non portare a termine i compiti che mi venivano assegnati. Cominciò quello che sarebbe stato il mio apprendistato alla pigrizia.
Io la ritenevo quasi un’abilità, un’arte, perchè in fondo oziare non è così facile. Del resto, già gli antichi romani consideravano l’otium molto più dignitoso rispetto al plebeo e dozzinale negotium.
La mancanza di attività porta necessariamente a pensare e a riflettere di più. Certo non sempre i pensieri sono buoni; ci sono quelli cattivi che lavorano di scalpello nella testa, e dopo che hanno fatto ben bene il loro lavoro, ti lasciano completamente svuotata, magari a cercare ristoro in una bibita fresca… Però dopo mi sentivo la testa più leggera e tutte le ferite, anche quelle profonde, sembravano rimarginate come d’incanto.
-  Ma si può sapere cosa hai fatto tutto il giorno? –  Mio marito era un disco rotto. Mi ripeteva questa frase tutte le sere quando tornava a casa dopo aver sostenuto una lunga e intensa giornata di lavoro.
Lavorava presso una banca d’affari a Londra. Per questo motivo ci eravamo trasferiti lì. Lo avevo seguito mio malgrado, senza convinzione. Lo avevo conosciuto a Roma durante una festa, presentato da amici. Gli ero piaciuta subito, il classico coup de foudre! Forse perchè non lo degnai di uno sguardo, o forse perchè non dissi nulla. Era abituato a stare al centro dell’attenzione, specie con le donne. Era un «animale» da intrattenimento. Rimase talmente colpito e disorientato da me e dalla mia indifferenza che solo dopo tre mesi di frequentazione mi chiese di sposarlo. Sempre senza convinzione, accettai. Il mio fu quasi un silenzio-assenso. Accettai per non dire di no. Non ne ero innamorata, e lo sapeva bene, ma gli piacevano le sfide e conquistarmi era diventata per lui una specie di ossessione... Non mi trasmetteva sicurezza, piuttosto un senso di identità. Rappresentava per me uno stato, ed io vivevo così una condizione di appartenenza a qualcuno o a qualcosa. Potevo almeno identificarmi in un essere umano; potevo esistere e avere un senso. Ero nel mondo, c’ero per qualcuno che mi faceva sentire importante. Ma non per questo pronta ad agire.
Dei quattro anni trascorsi a Londra quasi niente meritava di essere ricordato, se non il cioccolato fumante bevuto a “Caffé Nero”, che infondeva calore e determinazione nei lunghi pomeriggi di plumbei cieli londinesi. O le lunghe passeggiate sui ponti del Tamigi sbattuti dal vento. Un vento che gonfiava l’acqua e la sensazione di provvisorio che fiutavo nell’aria.
Aspettavo che finisse, che quei giorni vuoti e sempre uguali scoppiassero come palloncini troppo gonfi.
A volte la pigrizia genera ansia; e alla fine non riuscivo più a trascorrere l’esistenza rinchiusa nelle mura di una casa confortevole a farmi divorare dall’inerzia. Leggere dopo un po’ mi annoiava, perdevo subito la concentrazione. Cucire mi sembrava una cosa triste e d’altri tempi. Cucinare non mi piaceva e poi, grazie al cielo, c’era una governante tuttofare e volenterosa che suppliva magnificamente alla mia inoperosità.
Ormai anche smaltarmi le unghie (che era uno dei miei passatempi preferiti) aveva perso il suo fascino. E la tediosità sopravanzava il piacere.
Nel sesso ero diventata un’attrice superlativa: fingevo a provare un piacere che non mi apparteneva, per compiacerlo e per non spezzare quel tenue filo di complicità che ancora ci legava.  Mi accartocciavo sempre di più su me stessa, dentro le costrizioni di un difetto che si era trasformato in vizio.
Non partecipavo alla vita di coppia, e lo assecondavo per non contrariarlo. Ad un certo punto mio marito si esasperò talmente che decise di lasciarmi. Aveva perduto la sfida: non era riuscito a farmi innamorare di lui. Non era riuscito a farmi fare niente di ciò che avrebbe voluto. Ero, insomma, l’antitesi della moglie ideale.  Non lo biasimo, d’altronde. Aveva ogni diritto di rifarsi una vita, al di fuori del prisma dell’inerzia.
Ora è tutto diverso: sono tornata a Roma, nella mia città di origine che meglio asseconda quest’indolenza. E’ diverso perché dirigo un ufficio importante (finita lì un po’ per caso ma più per raccomandazione) dove la burocrazia è la protagonista principale. E si sa che la burocrazia va molto lenta, non va di fretta. Proprio come me… 
Così in pratica continuo a non fare niente, ma in compenso sono pagata profumatamente.
Certo, non mi riconosco più in alcuna identità, perché ormai non appartengo più a nessuno, o meglio solo alla mia pigrizia.

Monica Martinelli

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