mercoledì 1 maggio 2013

(esca)RECENSIONE: sarah panatta


Il cecchino di Michele Placido
Trasferta polar per la poco placida “piovra”, conciliando Shakespeare e muscolarità action

Di sarah panatta

 

Io non ti conosco, io non so chi sei…per questo sei tu. Il mio demone.


Sagome umane impigliate nel proprio tempo, e insieme catapultate nella frenesia reale, di sangue, tortura e bersagli…Sagome dislocate nella vertigine cinetica della “rapina”. Sguardi rifratti nei cocci aguzzi dei mirini appollaiati nell’aria mattutina, negli spigoli precipitati di uno specchio scoppiato in corsa. Il cecchino si apre in una plumbea digitale ambivalenza, con un confronto bipolare, una sfida psicologica appena accennata. Densa e oscura quanto gli occhi inamovibili del catturato protagonista (Vincent-Kassovitz). Speculazioni dostoevskijane e antagonisti shakespeariani alla prova del polar.



Chiamato oltralpe da macchina produttiva imponente, per un’opera su commissione ad alto tasso adrenalinico in infusione francofona, Michele Placido riceve in consegna una sceneggiatura biblica, fatta di fiumi carsici, sottotrame e svolte di “genere” ad orologeria. Taglia e cuce con ironia invisibile e torna agli antieroi solitari e meditativi, apparentemente imperturbabili di Romanzo criminale e Vallanzasca. Il regista e attore performa la ferinità disturbata e sempre vigile dei suoi protagonisti votandoli al puzzle autodistruttivo e inarrestabile di un poliziesco pulp inciso tra bulino e rasoio, che arriva in sala (dal primo maggio) in versione ridotta. Almeno tre le director’s cut esistenti, conferma il regista, la preferita da Placido così violenta e visivamente persistente da essere vietata ai minori di 12 anni dalla mannaia della censura francese. Cronologicamente appuntito Il cecchino (T.O. Le guetteur) esordisce con la dialettica squilibrata di un’unica scena, primo piano orizzontale perentorio, tra poliziotto inquisitorio e cecchino muto, l’uno inconsapevole fantasma dell’altro.
Sipario del non-detto. Titoli di testa, avvolti intorno al mirino puntato su ogni potenziale vittima, lo spettatore magnetizzato al centro dello schermo. Quindi altro centro, quello parigino, unica centrifuga scena di compresenza, destabilizzante (de)collage, deflagrati i destini non prescritti dei caratteri: la strada che fiancheggia la banca, bolla di traffico ovattato e di sportelli nervosi; l’auto dei rapinatori in allerta; i poliziotti che accerchiano silenziosamente la gang; l’apparizione indiretta del cecchino, che spara dall’alto costringendo in fuori gioco decine di braccia. L’orchestra-flusso si scioglie quindi nell’inseguimento, che isola i personaggi ma rapprende l’attesa. Il rapinatore ferito, il medico clandestino, il rapinatore morfinomane, il bottino occultato, il gruppo che si sfalda dietro sospetti e patti. Il cecchino Vincent si nasconde, il medico lo denuncia per arraffare l’intera refurtiva e inizia una lunga tormentosa scia di sangue. Vincent finisce in cella e medita una autolesionista ma efficace evasione. Innescata, trappola dopo trappola, la dama dei ruoli. Un passo dietro il capitano Mattei (un volto-cicatrice il magistrale Daniel Auteuil), che cerca la storia del cecchino nei dossier top secret dell’intelligence e trova un nesso tragico, con la morte del proprio figlio.


Un passato taciuto in Afghanistan, tradimenti, sevizie, donne violate, criminali romantici, esecuzioni evitate, uomini braccati, dalla strada alla foresta. Placido dirige il cecchino (a sua volta regista di successo, Mathieu Kassovitz, perfetto e indeterminabile) accovacciato sulle sue spalle, danza nell’immobilità paziente e vendicativa dei suoi occhi. Decostruendo il racconto in monologhi visivi che trattengono verità sempre latenti, e nella fotografia meticolosamente “calibrata”  con la luce, indice simbolico di condanna e assoluzione, degli scenari francesi. Dirottando gli indizi da un volto all’altro, Placido stringe sugli attori, chiudendoli nella morsa del dubbio e della brusca sopravvivenza misurata su minuti sempre più brevi. Il contraccolpo della realtà fuori controllo sulle facce, il riflesso nel vetro nella baracca, la grata che filtra e ingabbia i corpi vivi e i cadaveri urlanti. La verità non esiste, la verità “diserta”. Placido asseconda la sottrazione verbale delle emozioni, grumo pulsante e inespresso. Inscenando la caccia, ripercorrendo con sobrietà sul suolo francese le orme di Friedkin e Mann, il regista comprime la carnalità virulenta del proprio “fare” cinema, affidandosi alla mimesi impeccabile dei protagonisti, la triade Auteuil, Kassovitz e Gourmet su tutti.


Delitto e castigo…e polar.


Il cecchino (T.O. Le guetteur). Regia Michele Placido. Con Daniel Auteuil, Mathieu Kassovitz, Olivier Gourmet, Francis Renaud, Violante Placido, Luca Argentero. Sceneggiatura e dialoghi di Cédric Melon e Denis Brusseaux, Fotografia Arnaldo Catinari, Montaggio Sébastien Prangere e Consuelo Catucci, Prodotto da Fabio Conversi, Francia/Belgio/Italia 2013, Durata 89’, in sala dall’1 maggio.

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