Il cecchino di Michele Placido
Trasferta polar per la poco placida “piovra”, conciliando Shakespeare e muscolarità action
Di sarah panatta
Io non ti conosco, io non so chi sei…per questo sei tu. Il mio demone.
Sagome umane impigliate nel proprio tempo, e insieme catapultate nella frenesia reale, di sangue, tortura e bersagli…Sagome dislocate nella vertigine cinetica della “rapina”. Sguardi rifratti nei cocci aguzzi dei mirini appollaiati nell’aria mattutina, negli spigoli precipitati di uno specchio scoppiato in corsa. Il cecchino si apre in una plumbea digitale ambivalenza, con un confronto bipolare, una sfida psicologica appena accennata. Densa e oscura quanto gli occhi inamovibili del catturato protagonista (Vincent-Kassovitz). Speculazioni dostoevskijane e antagonisti shakespeariani alla prova del polar.
Chiamato oltralpe da macchina produttiva imponente, per un’opera su commissione ad alto tasso adrenalinico in infusione francofona, Michele Placido riceve in consegna una sceneggiatura biblica, fatta di fiumi carsici, sottotrame e svolte di “genere” ad orologeria. Taglia e cuce con ironia invisibile e torna agli antieroi solitari e meditativi, apparentemente imperturbabili di Romanzo criminale e Vallanzasca. Il regista e attore performa la ferinità disturbata e sempre vigile dei suoi protagonisti votandoli al puzzle autodistruttivo e inarrestabile di un poliziesco pulp inciso tra bulino e rasoio, che arriva in sala (dal primo maggio) in versione ridotta. Almeno tre le director’s cut esistenti, conferma il regista, la preferita da Placido così violenta e visivamente persistente da essere vietata ai minori di 12 anni dalla mannaia della censura francese. Cronologicamente appuntito Il cecchino (T.O. Le guetteur) esordisce con la dialettica squilibrata di un’unica scena, primo piano orizzontale perentorio, tra poliziotto inquisitorio e cecchino muto, l’uno inconsapevole fantasma dell’altro.
Un passato taciuto in Afghanistan, tradimenti, sevizie, donne violate, criminali romantici, esecuzioni evitate, uomini braccati, dalla strada alla foresta. Placido dirige il cecchino (a sua volta regista di successo, Mathieu Kassovitz, perfetto e indeterminabile) accovacciato sulle sue spalle, danza nell’immobilità paziente e vendicativa dei suoi occhi. Decostruendo il racconto in monologhi visivi che trattengono verità sempre latenti, e nella fotografia meticolosamente “calibrata” con la luce, indice simbolico di condanna e assoluzione, degli scenari francesi. Dirottando gli indizi da un volto all’altro, Placido stringe sugli attori, chiudendoli nella morsa del dubbio e della brusca sopravvivenza misurata su minuti sempre più brevi. Il contraccolpo della realtà fuori controllo sulle facce, il riflesso nel vetro nella baracca, la grata che filtra e ingabbia i corpi vivi e i cadaveri urlanti. La verità non esiste, la verità “diserta”. Placido asseconda la sottrazione verbale delle emozioni, grumo pulsante e inespresso. Inscenando la caccia, ripercorrendo con sobrietà sul suolo francese le orme di Friedkin e Mann, il regista comprime la carnalità virulenta del proprio “fare” cinema, affidandosi alla mimesi impeccabile dei protagonisti, la triade Auteuil, Kassovitz e Gourmet su tutti.
Delitto e castigo…e polar.
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