lunedì 1 aprile 2013

VACANCY: Spazio alla Parola


Spazio alla parola: un'osservazione sull'intervista
di Domenico Donatone
Rispondendo qualche giorno fa ad alcune domande per il Vox di Piero Ricca, la rubrica che il giornalista e blogger cura per il fattoquotidiano.it, ho avuto la sensazione di poter godere di uno strano sollievo: dire quello che penso. Liberarmi. Dire quello che si pensa sul serio è una cosa non difficile ma difficilissima. I vincoli ideologici, mediatici e culturali, rendono evidente che il pensiero è veicolato da binari precisi, che quello che ci appare come il nostro pensiero è il risultato di una mediazione continua che parcellizza il contenuto del discorso. Un po’ si pensa con la propria testa, ma per un’altra buona parte, abbastanza consistente, siamo pensati, riformuliamo il già detto come se fosse nostro. Non intendo dire che non ho risposto con sincerità, anzi, ho risposto anche con emozione, il che qualcosa vorrà pur dire quando si è davanti ad una telecamera, ma ho risposto avvertendo che in quel momento mi liberavo anche per imprigionarmi, forse, ulteriormente, e che la possibilità di dire “esisto anch’io” non è immune da sofferenza.Per questo l’oralità è qualcosa che accetto con qualche resistenza, non perché il pensiero non sia libero quando si esprime oralmente, ma perché è sottoposto allo scandalo di ascoltarsi, di udirsi sul serio, preferendo di gran lunga la scrittura perché è un atto controllato. In me la parola è ancora acerba mentre quando scrivo sono padrone del mio pensiero. In merito al significato dell’intervista, vorrei dire che essere interrogati è positivo perché ci scuote, consente di poterci riascoltare e capire qual è la sostanza reale che attiene al nostro pensiero. Tutto ciò non esclude che si voglia dire per essere protagonisti. Protagonisti di un taglio giornalistico che pur durando qualche minuto, per quell’unico spazio-tempo la vita è presente mentre torna a tacere una volta spenta la telecamera. Di certo la brevità dell’intervista non aiuta, anzi direi che è pericolosa, perché il dono della sintesi è un dono che hanno pochi, ma soprattutto perché scatena pulsioni remote eimprovvise, emozioni intense, fa precipitare una serie di pensieri che da tempo attendono di fuoriuscire, concetti che salgono dai polmoni alla gola fino ad esplodere con il rischio, nell’immediatezza dell’argomentazione,che si dica male quello che vorremmo ci venisse dato la possibilità di spiegare con più tempo. È dal tempo di relazione che le risposte sono contagiate, pronte a piegarsi al flusso sterminato delle idee che, piùche elevarsi con sicurezza, si rincorrono per cercarsi. In questo senso non vorrei essere nei panni di un neo eletto del M5s: l’intervista se non è fatta bene serve per massacrarti. In parte condivido che Grillo dica ai suoi di stare attenti, perché la parola vola, si contorce, e se non si è attoricapaci di stare sul palcoscenico dei media, rilasciare interviste è il modo migliore di farsi mortificare. Non c’entra l’autorevolezza del pensiero, c’entra che la parola ha bisogno di liberarsi dalle contratture. Dare voce alla società civile, la base su cui dovrebbe poggiare il consenso democratico, è attualmente la cosa più importante che un giornalista possa fare. Siccome la verità non è nei talk televisivi (tranne rarissime eccezioni) la verità, intesa non in senso filosofico, ma in senso antropologico, è in strada. Piaccia o non piaccia, quelli che rispondono come quelli che scappano, perché intimoriti dall’occhio meccanico della telecamera, siamo noi. Dare voce alla società significa anche rischiare. Rischiare soprattutto di capire che, nonostante ci sia tanta informazione, con l’apporto aggiuntivo e ormai strategico di internet, molti non sanno, molti ancora non hanno capito. L’informazione in questo periodo storico, per quanto difficile sia formarsi una propria idea e reagire ai vari bombardamenti etero-mediatici, è qualcosa di troppo importante. Vivendo anche a livello generazionale la macchina dell’informazione, ritengo che informarsi equivalgaa studiare. Bisogna stare lì ore a leggere, a chiarire le proprie idee, e chi rifiuta di informarsi sostanzialmente non vuol sapere che cosa il futuro ha in serbo. Fare informazione significa anche non dare niente per scontato, significa che quando poni una domanda, non è la domanda che conta al punto da appiattire la risposta, ma significa scatenare curiosità, poter indicare alle persone come muoversi, come agire, far crescere un interesse che dovrebbe essere in gran parte spontaneo. Fa bene stimolare le persone a parlare, a comunicare. In tanti anni ho scoperto, venendo dalla provincia, che tenersi tutto dentro ti fa diventare insopportabile. Non ha proprio senso vivere e non poter dire, non ha senso alcuno vivere e convincersi che è meglio tacere per non rovinarsi l’esistenza. Mi pare, dunque, che lo slancio che si possa dare alla parola determini convinzione, possa generare tormento quanto liberazione. Non credo, però, che tutto si possa dire e chi fa a gara per convincerci che si può dire tutto determina surrettiziamente uno sfogo pericoloso di cui non la censura è il vero nemico ma la persecuzione, giudiziaria quanto criminale e intellettuale. Pasolini lo aveva capito per primo con i suoi Comizi d’amore,favorendoun giornalismo dal basso in cui è protagonista il popolo più che le sue ragioni, è protagonista la “parola” più che il “pensiero”, ed io in parte corrispondo al desiderio di liberazione dall’angoscia,ma dall’altra mi convinco che parlare dinanzi una telecamera sia un atto che divora, un atto che mostra l’abisso culturale di chidesideraessere stoltamenteprotagonista. Scriveva Pasolini: «Altre mode, altri idoli, | la massa, non il popolo, la massa | decisa a farsi corrompere | al mondo ora si affaccia, | e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video | si abbevera, orda pura che irrompe | con pura avidità, informe | desiderio di partecipare alla festa. | E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole. | Muta il senso delle parole: | chi finora ha parlato, con speranza, resta | indietro, invecchiato. | Non serve, per ringiovanire, questo | offeso angosciarsi, questo disperato | arrendersi!| Chi non parla, è dimenticato. ||»

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