lunedì 1 aprile 2013

(Esca)RECENSIONE: il guanto bianco della poesia

il guanto bianco della poesia





Il guanto, al di là del suo utilizzo pratico, determinato dai rigori dell’ambiente, al di là degli usi estetici relativi all’abbigliamento, o dell’esigenza di proteggere le mani durante certi lavori o certe attività (militari, venatorie, ludiche), il guanto, è un oggetto al quale è stato attribuito, nell’ambito di varie culture, un rilevante valore simbolico.

Dal significato di ‘omaggio’ che gli conferivano alcuni popoli mediorientali nei confronti dei Faraoni, come dimostrano i pregiati guanti bianchi di lino rinvenuti nella sepoltura di Tut-ankh-amon, al valore testimoniale nelle alienazioni agrarie del mondo barbarico, per cui, chi vendeva un appezzamento, consegnava contestualmente all’acquirente un guanto riempito con una manciata di terra raccolta dal medesimo terreno; dalla volontà d’investitura feudale, o dal lancio contro l’imputato condannato, nel medioevo occidentale, all’accezione di sfida, protrattasi fino alle soglie del ventesimo secolo.

La simbologia legata al guanto si prestava peraltro a una possibile inversione di significato, per cui il dono di un guanto bianco, se da una parte esprimeva una manifestazione di solidarietà e di servizio nei confronti della persona a cui si donava, d’altra parte esibiva anche un forma di potere nei confronti di quella stessa persona.

Soprattutto il guanto femminile, o il guanto legato tout court all’emisfero femminile, continua ancora ad occupare un luogo preminente all’interno di una suggestione condivisa, capace di proiettarsi sul nostro immaginario, e rivivere attraverso altri linguaggi, come quello della poesia. A partire dalla cultura provenzale, nella quale, il guanto rientrava in un codice relativo al corteggiamento della donna, per cui se un ‘cavaliere’ offriva dei guanti bianchi profumati a una signora, e questa li accettava, ammetteva implicitamente di gradire, al contempo, anche i ‘servizi’ dello stesso ‘cavaliere’, ‘servizi’ che possiamo immaginare galanti, poetici, ma su cui non è certo indebito fare altre congetture. Difficile non richiamarsi, come emblematica estremità moderna di questa suggestione, al guanto, benché nero, di Rita Hayworth, sfilato con estenuante e sensuale lentezza, nel film “Gilda”.

L’invertibilità significante di questo simbolo trova una naturale corrispondenza nella poesia, e in una delle sue attitudini prevalenti, e cioè quella di dilatare l’alveo nel quale i simboli accolgono i loro significati; e ancor più trova corrispondenza con la poesia al femminile, o anche, con la natura femminile della poesia, che è tale, come dice Robert Graves, per cui “nessun poeta della Musa diventa conscio della Musa se non attraverso l’esperienza di una donna nella quale dimori in una certa misura la Dea”.

La riattualizzazione del guanto bianco, nell’ambito di un evento come quello delle “8 poetesse per l’8 marzo”, che riveste pur sempre in modo preminente un valore civile progressivo, non è quindi estranea a un intento di espressione poetica anche in senso lato, divenendo il segno di accoglienza e solidarietà dell’uomo nei confronti della donna: un segno praticato tramite l’affermazione celebrativa, in un giorno molto pregnante, del linguaggio poetico femminile, se non di genere femminile. Un evento inteso barthesianamente come atto poetico-artistico, poiché salda la sua immagine con la ‘cosa’ femminile in sé, in un mondo ancora in parte rovesciato in senso maschile, proponendo un passo ulteriore che spinge l’accoglienza e la solidarietà in direzione dell’‘innamoramento’ nei confronti del genere.

È un’evenienza, quella che fonde il femminile al poetico, che, per quanto mi riguarda, viene da lontano, e che segue una corrente continua, lasciando dietro di sé delle tracce, a volte non del tutto comprensibili, ma suggestionanti, come la dedica scritta da una donna, nell’aprile del 2008, sulla prima pagina della “Dea Bianca” di Robert Graves, poco tempo prima di uscire dalla mia vita con quel dono letterario inatteso, e, evidentemente, con un auspicio amorevole: “qui trovi le origini della tua passione e il futuro della Dea: insieme fanno il tuo presente”, affermando verosimilmente, e inconsapevolmente, con le sue parole, e ancor più con il suo tragitto di allontanamento, la sua entità di donna particolare, eletta dalla Dea a suo strumento “per un mese, un anno, sette anni o anche più”, come avrebbe detto lo stesso Robert Graves, convinto che il poeta possa sempre ritrovare la conoscenza della Dea attraverso altre incarnazioni del femminile, così come poi è avvenuto. Altrettanto inesplicabile appare l’incontro con un’altra donna, una delicata teatrante, la quale, qualche anno prima di tale incontro, scrisse e allestì per il Teatro delle Briciole di Reggio Emilia, e per il Teatro Due di Parma, uno spettacolo ispirato alle dieci incisioni di Max Klinger, intitolate “Parafrasi sul ritrovamento di un guanto” e che ispirarono anche, nel 1996, una bella canzone di Francesco De Gregori. Nell’opera dell’artista tedesco, si tratta di un guanto bianco ‘perduto’ da una giovane pattinatrice, e raccolto da un altrettanto giovane pattinatore, lo stesso pittore che si autoraffigura. Questo caso, apparentemente insignificante, diviene il tema di dieci enigmatiche incisioni, in cui la storia del giovane e quella del guanto bianco si confondono, e in cui il guanto bianco diviene il simbolo della donna come desiderio, e del desiderio di conoscenza della sfera femminile, che porta con sé le angoscianti paure del maschio.

Dalla identificazione, e dalla conseguente rimozione di queste paure, spesso moventi sotterranei della violenza sulle donne, sarebbe ragionevole impegnarsi in un percorso di armonia fra i generi, specie in un momento in cui, nel Paese si agitano campagne reazionarie che tradiscono il subdolo intento di rimettere in discussione diritti faticosamente acquisiti.

Con le “8 poetesse per l’8 marzo” ritorna dunque il guanto bianco della poesia, dopo la parentesi del guanto nero, che, per esprimere solidarietà a tutte le donne vittime di stupro, e a Navte Singh, il cittadino indiano aggredito e bruciato alla stazione di Nettuno nel febbraio del 2009, evocava in modo non certo anacronistico le Olimpiadi di Città del Messico del 1968, e l’eclatante gesto dei velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos. È un ritorno non certo originato dalla scomparsa del problema, ma semplicemente da una candida, irrazionale, fiducia.

Ugo Magnanti

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