venerdì 1 marzo 2013

Shorts. "Il figlio dell’altra"


Il figlio dell'altra.
Prove di pacificazione antiretorica nella militanza femminile plurale di Lorraine Lévy

 
Io e te, l’uno nell’altro, dall’“altra” parte. Se riconoscersi significa perdere se stessi e snudare un passato comune inconcepibile eppure vivo. Se penetrarsi comporta la condivisione di culture reciprocamente oltraggiose. Se toccarsi e legarsi, fratelli di luce e di nuovo stupore, nel mondo delle colonie d’ombra, svelle mura di “nascita” e tradizioni di sangue.
L’amore incolpevole e contagioso, grande spauracchio dei poteri economico-politici dominanti, quelli che dettano regolamenti esclusivi ed erigono gabbie di confini in cui prosperare ambigui e forti. L’amore che smaschera, anzi decripta, linguaggio semplicissimo e ardente, le etichette fasulle, e si pretende libero. Quando il cinema entra dentro la pelle della Storia adagiandosi tra le suppellettili e le carezze, le grida e gli incidenti di famiglie comuni, ferisce la realtà e si aggrappa al nostro sentire spento da fanfare retoriche. Narrazione femminile, perché maternamente aperta e paziente, Il figlio dell’altra – in uscita il 14 marzo –, ultimo film di Lorraine Lévy (figlia del noto scrittore e vicina al pensiero di Amos Oz) inscena senza isterie ricattatorie, nel perimetro caldo dell’appartenenza e della famiglia, la conflittualità emotiva tra identità etno-religiose. E diventa immediato messaggio, o meglio interrogativo, perlustrazione, richiamo.
Due famiglie, una israeliana e borghese a Tel Aviv, l’altra palestinese e operaia nel ghetto cisgiordano. Scoprono che i rispettivi figli maschi quasi maggiorenni, Joseph e Yacine, sono stati scambiati nella notte in cui sono nati. Notte di bombardamenti e di fibrillazioni sociali. Il nuovo giorno è terrore e speranza. Che succede quando l’altro è tuo figlio? Le terra trema e muta forma. Mutarsi per sopravvivere e viversi. Un atto viscerale, auto demistificante. Per la stessa regista, ebrea e consapevole. Un atto di decolonizzazione mentale indelebile che ci chiama alla sbarra. Figli, genitori, uomini. Devastare intere generazioni per legittimarsi in un lembo di terra strappata, quanto vale? Vale l’abbraccio di un figlio? “Siamo”, in quella terra contesa o “nelle” braccia del “figlio” nostro?


Sarah Panatta

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